Palazzi & potere

Sharing Economy, tutta una Bugia?

In Italia siamo tutti “pazzi per la sharing economy”. Eppure in Italia è una realtà inesistente. A leggere attentamente l’annuale mappatura delle piattaforme la bolla si sgonfia: è vero, il numero delle piattaforme nel 2016 è aumentato del 10%, ma il 30% di quelle censite nel 2015, ad oggi, sono inattive. Più della metà delle piattaforme (51%) ha meno di 5 mila utenti e meno della metà dei siti dedicati al crowdfunding ha meno di 500 donatori.
 
Le cause sono sempre le stesse: mancanza di investimenti, di visione, di educazione. Eppure le premesse (e le promesse) sono buone. I costi dei beni e dei servizi offerti si riducono perché si salta gran parte dell’intermediazione; sono efficientate e massimizzate le risorse; aumenta il potere della community che valuta continuamente il servizio.
 
Ma non è tutto oro quello che luccica, soprattutto dal punto di vista del mercato del lavoro. 

 

  • A causa di regole frammentarie e disordinate, spesso nella condivisione a pagamento il confine tra rimborso spese e forma di reddito integrativa è ambiguo. 
  • Affinché una piattaforma di sharing sia efficiente deve avere un’ampia community di utenti, generando rapidamente forme di oligopolio che tendono poi al monopolio. 
  • Quando una piattaforma diventa dominante in un certo settore possiamo dire addio alla tanto cara condivisione orizzontale: grazie a enormi volumi di guadagni, il numero dei soggetti che detta le regole di mercato si fa sempre più sottile e verticale.

 
Che piaccia o no, che lo si consideri il problema o la soluzione, la sharing economy sta trasformando (non certo in Italia) il mercato tradizionale dei beni e dei servizi con cui le piattaforme entrano in concorrenza. Ciò che resta da capire è, se la trasformazione è ormai inevitabile, come si potranno tamponare i grandi costi sociali in termini di posti di lavoro.
 
Per intenderci, la sharing economy potrebbe condurci alla realizzazione della decrescita felice grazie ad una riduzione dell’orario di lavoro e all’aumento del tempo libero. Come? In quanto consumatori di un’economia condivisa pagheremmo solo la nostra quota di utilizzo del bene e servizio, avremmo quindi bisogno di un reddito minore per ottenere lo stesso livello di qualità che ottenevamo precedentemente con l’acquisto, quindi accontentandoci di un reddito inferiore potremmo lavorare meno ore, senza intaccare nemmeno il livello di disoccupazione. Ma diciamoci la verità, non è un modello realistico. Basti pensare che il costo individuale da sostenere per l’utilizzo quotidiano di un servizio di car sharing si avvicina ancora un po’ troppo ai costi di possesso di un’auto privata.
 

Indipendentemente quindi, dalle considerazioni di merito o dall’eccessivo entusiasmo per un’economia collaborativa “nostrana”, la sharing eocnomy è una realtà e come tale va considerata e affrontata. I pro e i contro dei servizi condivisi mostrano il bisogno di una politica e di una regolamentazione leggera, veloce, ordinata e flessibile, ma pur sempre una regolamentazione che non venga sconfessata dall’ennesima sentenza di turno, per non lamentarci dei soliti colossi della sharing economy che finiscono con il mangiarsi tutto ma di cui comunque non riusciamo a fare a meno.

Benedetta Fiani