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Politica
Referendum, alla destra la riforma di Renzi piace


Il referendum si avvicina e provoca curiosi fenomeni.
Al di là del merito sui quesiti è interessante vedere quello che sta succedendo a livello politico per testare la tenuta delle affermazioni fatte in passato su questi temi.
Ad esempio, il referendum costituzionale rafforza i poteri dell’esecutivo nei confronti del Parlamento e questo è stato da sempre un cavallo di battaglia della destra e che anzi ha guidato la sua azione riformatrice quando deteneva le leve del potere politico ai tempi di Berlusconi e Fini.
Del resto l’idea della destra è sempre stata quella di un leader forte e con pieni poteri che potesse decidere in un verso oppure nell’altro, ma comunque decidere senza essere bloccato dalle spolette parlamentari tra le due Camere o da un Parlamento comunque “ostile” ad essere poco consultato e c’è da dire che l’esponenziale aumento dei decreti legge a cui abbiamo assistito negli ultimi anni va proprio in questa direzione.
Ora tuttavia la destra contesta la riforma renziana non perché non le piaccia, sarebbe impossibile da sostenere, ma perché dopo lo scioglimento del patto del Nazareno si vuole “vendicare” ostacolando il governo stesso qualsiasi decisione prenda tranne naturalmente il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che la scelta di supportare Renzi la fece subito proprio dopo la rottura del Nazareno e, occorre dirlo, con una certa lungimiranza visto poi l’evolversi degli eventi successivi.
Dall’altro canto, i quesiti referendari sono presi dalla minoranza del Pd a pretesto per condurre una battaglia interna contro il premier anche da politici, come D’Alema e Bersani, che avevano invece in passato condotto battaglie per la riforma della Costituzione e nel verso del rafforzamento della figura del premier.
Bersani ha avuto più pazienza di D’Alema e ha cercato, nella migliore tradizione comunista, di trarre il massimo vantaggio dalla situazione e cioè facendo esporre l’ex Presidente del Consiglio per il “no” e rimanendo lui a trattare con il premier ma alla fine ha dovuto cedere ed esplicitare la sua indicazione politica in maniera chiara e manifesta.
Il passaggio esplicito del neorottamato Bersani al “No” –domani l’ufficializzazione in direzione Pd- segna l’inizio delle ostilità in casa democratica che potrebbe precludere ad una scissione in caso di vittoria del “Sì” spostando ulteriormente a destra la bussola della politica renziana.
Il M5S invece continua la sua opera di guastamento di qualsiasi iniziativa provenga da altre forze politiche, indipendentemente da qualsiasi discorso sul merito dei provvedimenti stessi mostrandosi eccezionale nel demolire ma nullo nel costruire come il caso Roma sta dimostrando in maniera chiara e lampante.
Paradossale anche la posizione di Sel che una volta incassata dal Pd un’alta carica istituzionale e cioè la Presidenza della Camera con Laura Boldrini sia passata ad una sorta di opposizione ideologica che pare anch’essa guidata unicamente da una parte destruens fine a sé stessa.
Ad esempio, sul caso dell’assoluzione dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, Sel aveva esplicitato a suo tempo la richiesta di allontanamento sulla base degli scontrini contestati salvo poi fare marcia indietro chiedendo al Pd stesso di fare le scuse del caso.
Si dirà che questo fa parte del gioco democratico ed è una osservazione condivisibile, tuttavia non si può fare a meno di rilevare contraddizioni ed ambiguità che devono essere conosciute dagli elettori per trarne le necessarie conseguenze al momento della verifica delle urne.

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referendum 4 dicembre





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