"Caro Ezio Mauro, ma che dici? Il riformismo è un'altra cosa"
Il riformismo, parola magica, illo tempore di una sinistra in via di estinzione, è entrata abusivamente, come le riforme strutturali o di struttura, nel forbito lessico del neoliberismo e delle forze, meglio lobby, finanziario-politiche a esso asservite: e d'improvviso ri-torna disperatamente d'attualità per merito di Ezio Mauro. Apprezzabile il tentativo di Mauro e del neo-polo editoriale 'Repubblica-Stampa' di "innaffiare la rosa appassita del riformismo", quale possibile via d'uscita dalla epocale crisi, se non truffa, finanziaria tuttora irrisolta che dal 2007-2008 ha generato diseguaglianze spaventose, e guerre, nel mondo e in Europa. Encomiabile tentativo, ma purtroppo con poche, nulle prospettive di cambiamento dello status quo, essendo al più una minestra riscaldata.
Il riformismo, è vero, fa parte della storia della sinistra e laddove è stato sperimentato, soprattutto nei paesi scandinavi e in Germania, di risultati positivi e dignotosi per la vita delle persone ne ha prodotti - l'Welare State in primis-allentando in Europa e anche in Italia la morsa opprimente e illiberale della conservazione e delle destre. Riproporlo oggi, senza una radicale rivisitazione culturale per contrastare decisamente l'implentamentazione ovunque dello Stato tecnocratico-confessionale, è fuori luogo: semmai è da riproporre e riprogettare il riformismo rivoluzionario dei primi anni '60, quello dello Stato laico e riformatore, sulla lunghezza d'onda delle teorie keynesiane, e di un modello di società alternativo a quello prodotto dalla visione clerico-capitalistica.
Ci fu un florido e fecondo periodo di grandi riforme di struttura, economico-sociali-civili, in Italia, alcune attuate: nazionalizzazione dell'energia elettrica, ospedalizzazione gratuita, scuola media dell'obbligo, statuto dei dei diritti dei lavoratori, altre restate sulla carta, riforma del sistema bancario, riforma agraria e dei suoli. L'autunno caldo ne generò di significative per la vita dei lavoratori: le 150 ore di formazione continua, i consigli di fabbrica, i contratti nazionali di lavoro. Un'ondata di riforme strutturali culminate nella straordinaria vittoria dei No al referendum sul divorzio e poi sul'aborto a scopo terapeutico.
Poi di questo riformismo rivoluzionario che voleva riformare e non distruggere come il '68 le innovazioni del capitalismo che avevano elevato il benessere fisico delle persone, ospedali e sale operatorie, farmaci e pure autostrade, si sono perse le tracce. E ciò accadde principalmente per l'opposizione nella sinistra del Pci la cui linea culturale e politica ha sempre ruotato attorno al compromesso storico, ossia all'accordo storico con la Chiesa e la sua più alta espressione, la Dc, cosa ben diversa dalla convergenza con le forze cattoliche disponibili alle riforme, e a cascata alla politica dell'austerità o dei sacrifici, cioè l'accordo tra potenze: lavoro e capitale, e l'automatismo salariale, inventato dal monetarista americano Freednam, il punto unico di contingenza instaurato dall'accordo Lama-Agnelli, ne fu il clamoroso esempio.
Pur appellandosi al socialismo europeo, dopo la subdola via italiana al socialismo di Palmiro Togliatti, all'autonomia nominale dall'Urss, dopo l'invasione disastrosa dell'Ungheria e della Cecoslovacchia, all'ombrello protettivo della Nato, dopo il golpe cileno e l'assassinio di Salvator Alliende, il Pci preferì restare in mezzo al guado, orgoglioso dei suoi consensi elettorali, ossia non scelse mai l'alternativa socialista. Si disperse così l'occasione storica tra il '74 e il '75, anno in cui le sinistre ebbero un rilevante incremento di voti, di gettare le basi per scommettere su un modello di società nuova, inedita, ma dai chiari connotati di laicità, di uguaglianza e libertà, di progresso sociale e civile.
Togliatti e Berlinguer, Amendola e Napolitano, e potremmo aggiungere Eugenio Scalfari e Repubblica, furono i maggiori artefici del Pci in double face: una versione pubblica, il socialismo europeo e un'altra, stalinista e depurata del socialismo europeo, opposta a solo uso interno. Di ben altra pasta gli sconfitti di qell'utopia paradossale, il riformismo rivoluzionario: Di Vittorio, Trentin e Ingrao al pari nel Psi di Lombardi, Giolitti e Basso, con l'aggiunta di Foa.
Tempi ormai lontani! Il presente dice però che quell'impareggiabile, gentleman di Napolitano arrivato alla Presidenza della Repubblica, abbia nominato senatore a vita e poi Premier un liberista doc, il gesuita Mario Monti, poi a seguire un ex-Dc e cattolico Enrico Letta e dulcis in fundo il già boy scout Matteo Renzi: e in questa girandola di nomi chi ne ha fatto le spese è stato, gaurda caso, un ex-Pci Pier Luigi Bersani. Re Giorgio come del resto il vate Scalfari, entrambi la Resistenza l'hanno letta sui libri, sono i grandi estimatori di quel Mario Draghi il pilota automatico gesuita di Bruxelles che a differenza del suo maestro Federico Caffè ha scelto di fare il consigliere del principe.
Apprezzabile, encomiabile, il tentativo di Mauro ma purtroppo per lui e per il suo polo editoriale resta almeno per ora una minestra riscaldata, un pannicello caldo che non modifica lo status quo: ci vuole ben altro e di più energico per rimettere in piedi una sinistra laica, onesta e libera dai vecchi schemi e anticaglie del passato.