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Alessandro Leogrande, 'Il caporalato e la lezione di Giuseppe Di Vittorio'

di Alessandro Leogrande*

Il caporalato è un fenomeno apparentemente antico che caratterizza tuttora le campagne italiane. Non solo quelle meridionali, dove esso sembra più appariscente, ma anche quelle del Centro-nord del Paese. Credevamo che tale metodo di ingaggio della manodopera si fosse attenuato nel tempo, invece è tornato negli ultimi quindici-venti anni in forme particolarmente virulente.

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Come è stato possibile? Ci sono delle differenze sostanziali tra il caporalato del passato e quello “globalizzato” dei giorni nostri. Quest’ultimo si è adeguato e adattato ad alcuni radicali processi sociali in atto, in particolare l’erompere dei flussi migratori; e ha prodotto in molti casi una degenerazione dello sfruttamento in schiavismo. C’è un profonda differenza tra i braccianti di oggi e quelli di ieri, quelli di Giuseppe Di Vittorio e di Placido Rizzotto, quelli che hanno lottato per l’imponibile di manodopera, hanno partecipato alle occupazioni delle terre e si sono scontrati contro condizioni di lavoro e di vita inique.

Un tempo i “cafoni” condividevano con il caporale il medesimo orizzonte sociale e culturale, la medesima lingua, le medesime contrade (non sempre, come vedremo nell’ultimo paragrafo, eppure in buona parte è stato così). Pur schierati su versanti contrapposti, appartenevano allo stesso paese, o comunque alla stessa provincia, alla stessa regione. Pertanto venivano a stabilirsi con il caporale, e quindi con il proprietario terriero alle sue spalle, dei rapporti di forza codificati. Certo, c’erano la fame, la malaria, la mortalità infantile, i soprusi, il sotto-salario, la repressione sistematica di ogni moto di ribellione... La “civiltà contadina” è stata anche questo, e non voglio affatto minimizzare un cumulo di violenze peraltro vittima di oblio nell’Italia contemporanea.

Tuttavia oggi accade qualcosa di profondamente diverso. I braccianti stranieri, soprattutto quando stagionali, percepiscono le nostre campagne come una “terra di nessuno” con cui non hanno niente a che spartire: una terra di cui non condividono la lingua, non conoscono le leggi scritte e quelle non scritte. Anche quando si insediano nelle borgate e nei casolari intorno ai paesi, non c’è alcuna forma di integrazione con il loro tessuto urbano e sociale. C’è una distanza siderale: ogni chilometro ne vale cento; ed è proprio questa estraniazione a generare la profonda vulnerabilità che alimenta lo sfruttamento più crudo.

Benché tutto il caporalato non sia riconducibile a forme di neo-schiavismo, sempre più spesso esso si manifesta in casi eclatanti di riduzione in schiavitù, in vari gradi di “soggezione continuativa”, come questa viene definita nell’articolo 600 del Codice penale. “La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione”, vi si legge, “ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.” Riproducendosi su larga scala, e per migliaia di lavoratori, tale “soggezione continuativa” diviene elemento strutturale del lavoro agricolo (e, in misura meno appariscente ma ugualmente grave, in altri ambiti come l’edilizia). 

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I nuovi caporali

Oggi l’organizzazione gerarchica del caporalato è composta da una fitta reti di capi, caporali e sotto-caporali spesso in contatto tra loro da regione a regione. Come racconta Yvan Sagnet, portavoce dei braccianti che hanno organizzato lo sciopero di Nardò nell’estate del 2011 e oggi impegnato nella Flai-Cgil, in Puglia: “ci sono i caporali e ci sono i sotto-caporali. Perché i caporali non possono gestire tutto. Il caporale può avere quattro o cinque campi di raccolta e manda i suoi assistenti a gestire i lavoratori. Ha una squadra, ha gli autisti, degli assistenti, ha i cuochi.

A Nardò c’era il ‘capo de capi’, era un tunisino. Poi c’erano altri caporali che lavoravano per lui. Ci sono varie tipi di nazionalità in particolare africani. Il capo dei capi manda il caporale a gestire gli altri capi. Al capo dei capi spetta una percentuale su ogni cassone, ma il grosso rimane al caporale. Questi è quasi autonomo rispetto al primo livello. Nell’agro di Nardò, c’erano tra i 15 e 20 caporali e controllavano tra i 500 e i 600 lavoratori”.

In cosa le condizioni descritte da Sagnet differiscono da quello che possiamo definire “caporalato classico”? Gli ambiti di sfruttamento, minaccia e ricatto sembrano essersi ampliati, sono diventati sempre più capillari nelle varie sfere della vita quotidiana dei lavoratori agricoli, che dipendono in tutto e per tutto dai caporali, non avendo altre reti a cui far riferimento. Il controllo dei caporali si estende spesso agli stessi alloggi in cui dormono. È questa la principale differenza tra vecchie e nuove forme del caporalato.

Un ulteriore elemento di novità del caporalato “globale” rispetto a quello “classico” è che la provenienza geografica dei caporali è divenuta una variabile che incide fortemente sul reclutamento dei braccianti. Sempre Sagnet racconta che “il mio caporale era sudanese. E qui funziona per nazionalità, prima vengono quelli della nazionalità del caporale, e poi gli altri. Funziona così anche con i tunisini, con i nigeriani”. E lo stesso accade per i lavoratori provenienti dall’Europa dell’est, a volte vittime di condizioni di sottomissione ancora maggiori. Come detto, i nuovi braccianti agricoli non possono far riferimento a quelle che in sociologia si chiamano reti sociali “dense”.

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Lo sfruttamento avviene in condizioni di profonda solitudine, o comunque di isolamento. Ovviamente, negli ultimi vent’anni il nuovo caporalato non solo si è intrecciato con i nuovi flussi migratori, traendo vantaggio dal bisogno di occupazione di larghe masse di lavoratori. È stato oltremodo favorito dalla legislazione in materia di immigrazione. La Bossi-Fini è stata spesso un potente alleato dei caporali, rendendo i lavoratori (specie se sprovvisti di un permesso di soggiorno) oltremodo ricattabili davanti ai propri sfruttatori.

Tantissimi lavoratori sono stati denunciati come “irregolari”, dopo essere stati sfruttati dai loro stessi caporali. Tantissimi altri si sono affidati ai “signori della regolarizzazione”, offrendo diverse migliaia di euro per un permesso di soggiorno (il semplice pezzo di carta) in cambio di un lavoro che rimaneva il medesimo. Quando i braccianti abitano in casolari isolati o in tendopoli auto-costruite lontane dai centri abitati, tale invisibilità alimenta la loro vulnerabilità. È alla luce di tutto ciò che vanno valutate le nuove misure varate nel settembre del 2011 (introduzione del reato di caporalato) e nel luglio del 2012 (concessione del permesso di soggiorno ai lavoratori che denunciano i propri sfruttatori).

Tali misure sono di enorme importanza. Per la prima volta in Italia viene formulato giuridicamente il concetto di grave sfruttamento lavorativo: qualcosa cioè che, anche qualora non giunga alle forme estreme di riduzione in schiavitù, è comunque molto più grave del semplice “lavoro nero” o della sola evasione contributiva. E per la prima volta viene offerta una via d’uscita a tutti quei lavoratori ricattati dalla condizione di clandestinità. Tuttavia tali norme possono divenire davvero efficaci, solo se la cappa di vulnerabilità e invisibilità verrà rotta anche sul piano culturale, sociale, economico, sindacale.
 

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La lezione di Di Vittorio

Tuttavia tra passato e presente ci sono anche profonde analogie da cui trarre importanti insegnamenti. Non solo la giornata-tipo di un bracciante del ventunesimo secolo è tremendamente simile a quella di un bracciante dei primi del Novecento (basta leggere ad esempio le testimonianze “di ieri” raccolte in “La memoria che resta. Vita quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia” di Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero, Edizioni Aramirè, per accorgersi come l’universo materiale, la fame, l’assenza di acqua, l’inospitalità dei casolari, i metodi del dominio siano spesso i medesimi).

C’è un’altra analogia da interrogare, e in buona parte porta a vedere sotto nuova luce quanto detto finora: anche ai primi del Novecento il lavoro agricolo era strettamente intrecciato ai flussi migratori. Non erano flussi globali, beninteso, bensì intraregionali o al massimo interregionali. Ma in alcuni casi mettevano a dura prova - proprio come oggi - il rapporto tra lavoratori “locali” e “forestieri”. Giuseppe Di Vittorio prestò sempre molta attenzione al nesso tra lavoro e flussi migratori, come dimostra un recente libro edito da Donzelli, “Le strade del lavoro”, a cura di Michele Colucci. Vorrei porre l’attenzione sul primo scritto raccolto nel volume, una lettera indirizzata al direttore del “Corriere delle Puglie” nell’aprile del 1914 a proposito dei fatti di Colapatella. Cosa era accaduto? Nella masseria di Colapatella, a pochi chilometri da Cerignola, in provincia di Foggia, c’era stato un sanguinoso scontro tra lavoratori locali e lavoratori “forestieri” provenienti dalla provincia di Bari, che aveva lasciato in mezzo ai campi un morto e diversi feriti. Alle spalle di tanta violenza tra gli stessi lavoratori, vi era la particolare struttura del lavoro agricolo nella Puglia di primo Novecento.


Nonostante le profonde differenze tra ieri e oggi già analizzate, in genere si pensa che il “lavoro migrante” sia approdato in agricoltura solo negli ultimi quindicivent’anni con l’arrivo nelle nostre campagne dei braccianti stranieri, africani o esteuropei, che hanno rimpiazzato i vecchi braccianti pugliesi, siciliani, calabresi; e si deduce che l’intreccio tra vulnerabilità dei nuovi arrivati, scarsa sindacalizzazione, paghe da fame e casi di grave sfruttamento lavorativo sia una fatto relativamente recente. Come se prima, un secolo fa, a lavorare la terra e a raccogliere i suoi frutti, fossero unicamente braccianti stanziali, residenti a pochi chilometri dai fondi agricoli, “etnicamente” compatti. Molte volte non era affatto così.

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Il Tavoliere era una complessa area d’immigrazione anche un secolo fa. Solo che allora gli “stranieri” che approdavano nell’agro di Cerignola perché a casa loro soffrivano la fame provenivano dalle altre province pugliesi, seguendo massicce migrazioni stagionali molto simili a quelle attuali. Da dove nasceva il dissidio? Mentre i braccianti cerignolani erano da tempo organizzati in una Lega combattiva, che aveva ottenuto (almeno in parte) il rispetto dei propri diritti e un sostanziale aumento delle retribuzioni, i “forestieri” provenienti dalla provincia di Bari - scarsamente organizzati - accettavano di lavorare anche per 40-50 centesimi in meno al giorno, all’epoca una cifra enorme. Ovviamente i proprietari terrieri, e i loro “suprastanti”, avevano tutto l’interesse a ingaggiare questi ultimi per indebolire la Lega. Da qui gli scontri sanguinosi. 

L’intelligenza di Di Vittorio fu nell’intuire che il lavoro migrante è connaturato all’essenza stessa dell’agricoltura stagionale, e che ogni forma di organizzazione sindacale - nata per unire tutti i lavoratori - ne avrebbe dovuto tenere conto. Era inutile accusare i nuovi arrivati di crumiraggio: il problema era semmai trovare il modo di ricostituire un’alleanza plurale tra diversi lavoratori, informandoli sui loro diritti soprattutto nelle province di partenza, interpretando lo stesso sindacato come una struttura “migrante” dal momento che deve avere a che fare con dei lavoratori “migranti”. Ma di quale Puglia stiamo parlando, di quella di un secolo fa o di quella dei giorni nostri? Stiamo parlando di entrambe, e risiede proprio in questo il grande interesse degli scritti di Di Vittorio. Da qui occorre ripartire per disegnare nuove forme di intervento e analisi. Lottare contro il caporalato vuol dire innanzitutto comprendere il mondo che ci circonda. Cogliere tutti i nessi possibili tra passato e presente.

* da "Rassegna Sindacale" del 21/12/2012

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Pubblicato sul tema: Alessandro Leogrande, la morte improvvisa e l'identità stratificata di Puglia

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