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Andrea Camilleri, razza di
scrittore in via d’estinzione
Il ricordo di Andrea Camilleri a cura di Antonio V. Gelormini
La notizia della morte di Andrea Camilleri - per certi versi attesa già da settimane, dopo la crisi cardiaca che l’aveva colpito - arriva mentre la radio rimanda della vasta operazione antimafia tra Palermo e New York, che sgomina i clan Inzerillo e Gambino, e mentre sto lavorando alla rassegna “La Puglia in Giallo e le trame autoctone dei suoi Noir” prodotta da Radici Future, in cui si fa focus su Evan Hunter/Ed McBain: autore di origini lucane (Ruvo del Monte - Pz) sceneggiatore, tra altro, del famoso cult del film poliziesco: “Gli uccelli” diretto da Alfred Hitchcock.
Due sono le immagini indelebili, a cui resta ancorato il ricordo dell’incontro ricco di emozione: la prima a Varese, nel periodo iniziale del grande successo di pubblico e di lettori. La seconda, più recente, nella suggestiva cornice del Teatro Petruzzelli a Bari, durante una master-class del Bif&st. In entrambi i casi ebbi la fortuna di poter interloquire con lui.
Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia sono gli specchi in cui Andrea Camilleri incessantemente ha continuato a riflettersi. Lo ricordava spesso nelle sue interviste: “Conobbi Sciascia negli anni ’50, poco dopo la pubblicazione del suo romanzo ‘Le parrocchie di Regalpetra’. Come funzionario Rai, gli scrissi perché volevamo fare un lavoro televisivo sugli intrecci tra mafia, banche e politica, tenuto conto anche dell’omicidio mafioso del direttore del Banco di Sicilia. Sciascia però rifiutò la proposta di collaborazione perché gli parve un lavoro troppo complesso”.
“Presto però - ricordava con piacere l’autore di Porto Empedocle - ci ritrovammo e scoprimmo di avere una serie di cose in comune. Lui era stato allievo di Vitaliano Brancati all’Istituto magistrale di Caltanissetta e Brancati era un mio idolo. Inoltre eravamo cresciuti entrambi sotto il segno di Pirandello. A Leonardo devo molto. Fu lui a portarmi da Sellerio, che è stato il mio editore ‘unico’. Ancora oggi quando mi sento scarico, e alla mia età succede spesso, leggo qualche pagina di Sciascia e mi ricarico. E’ come portare la macchina dall’elettrauto… l’elettrauto Sciascia”.
A chi gli chiedeva se fosse giusto continuare a parlare di Sicilia facendo riferimento alla mafia, o forse fosse meglio evitarlo, Camilleri rispondeva senza esitazioni: “A meno di non voler fare come quel cardinale, che tanti anni fa definì la Mafia un’invenzione dei giornali, io direi che sì, occorre assolutamente continuare a parlarne. E’ qualcosa che esiste e sarebbe decisamente brutto cominciare a tacerne. La realtà va raccontata per come essa è, e dei mafiosi va detto esattamente ciò che sono, cioè degli assassini per natura”.
“Il vero problema, in materia di mafia - precisava - non è “se” parlarne, bensì il “come”. Sui mafiosi si sono creati tanti di quegli stereotipi, che a volte c’è il rischio che risultino simpatici. Fra gli autori contemporanei credo che Roberto Saviano nel suo “Gomorra” sia fra i pochi che sono riusciti a raccontare la criminalità organizzata nel modo più giusto. Questa difficoltà di raccontare la mafia in modo equilibrato è il motivo per cui nei miei romanzi, pur comparendo, è soprattutto un rumore di fondo”.
Per Andrea Camilleri l’essenza della letteratura, sentiero percorso in tutta la sua produzione artistica, era lo sforzo di “Riuscire a comunicare al più vasto pubblico possibile ciò che si ha dentro, non assecondando però i gusti del pubblico, ma cercando il più possibile di portarselo dalla propria parte”. Infatti, checché se ne dica o pensino i vari emuli, la grandezza di Andrea Camilleri non è nelle trame, nelle fisime e nei titoli di Salvo Montalbano, bensì tra le pagine de "La concessione del telefono", de "Il birraio di Preston", de "La strage dimenticata". Inimitabili e irraggiungibili nella formula e nel linguaggio letterario.
A Varese, fu espressivo nel silenzio lungo di una risposta “evasiva” alla richiesta del perché i suoi titoli avessero quasi tutti la medesima costruzione: soggetto e complemento di specificazione. Più loquace della risposta fu il sorriso sornione, che affiorò sul suo faccione.
Mentre indimenticabile ed esilarante fu il racconto, regalato al pubblico del Bif&st al Petruzzelli, della telefonata di un redattore del quotidiano spagnolo El Pais, che alla vigilia del 2000 gli chiese quale, secondo lui, fosse il romanzo del Novecento che avrebbe traghettato volentieri nel nuovo Millennio: “Io risposi d’istinto “I Promessi Sposi” del Manzoni. Ma chiusa la telefonata, mi venne il dubbio sulla sua data di composizione. Andai da mia moglie e le chiesi: ‘Rosetta, ma quando fu scritto I Promessi Sposi?’. E lei mi rispose: ‘L’edizione definitiva è del 1842’. E io: “Miiinchiaaaa, cchi figura ca fici !!!…”.
“E in effetti, poco dopo mi richiamarono da El Pais per dirmi che forse c’era un errore, chiedendomi se come romanzo del Novecento non potesse magari andar meglio "Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. E io risposi “No…Quello è dell’Ottocento!”.
E proprio sul Gattopardo Camilleri spiazzò il pubblico, definendolo “Un romanzo un po’ sopravvalutato”, affermando e spiegando che: “Quest’opera contiene una rappresentazione “astorica” della nobiltà, frutto di un autore nostalgico di un tempo, di cui ha difficoltà ad accettare il tramonto: “Da questo punto di vista, pur appartenendo alla stessa classe sociale, il cugino di Tomasi di Lampedusa, Lucio Piccolo - uno dei più grandi poeti italiani del ‘900 - era molto più moderno di lui”.
Ma la domanda del collega di El Pais era rimasta senza risposta, per cui non persi l’occasione di richiedergli - quasi alla Montalbano - quale romanzo del Novecento, allora, Camilleri avrebbe traghettato nel nuovo Millennio. La risposta - “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo - in qualche modo sorprese il pubblico, dato che si tratta di un romanzo di cui si parla sempre pochissimo, ma che - in realtà - rappresenta uno dei più originali esempi di scrittura sperimentale del ‘900, ricco di un complesso registro linguistico.
La notizia della sua morte arriva anche in coincidenza della desecretazione e pubblicazione degli atti del giudice Paolo Borsellino e delle sue riflessioni sulla scorta di giorno e la vulnerabilità notturna. Una vicenda amara che conobbe momenti di tensione, quando Leonardo Sciascia - il 10 agosto 1987 - scrisse sul Corriere della Sera l’articolo intitolato “I professionisti dell’antimafia”, un testo che stigmatizzava quanti, a suo dire, traevano profitto personale dalla lotta alla delinquenza organizzata, esibendo a parole il loro impegno contro le cosche e trascurando i propri doveri amministrativi.
Uno dei bersagli dell’articolo fu proprio il giudice Paolo Borsellino, anni dopo barbaramente assassinato dalla mafia. Questa presa di posizione di Sciascia provocò una durissima reazione di buona parte del mondo della cultura e delle maggiori forze politiche. “Certamente la sua - commentava e spiegava Camilleri - fu un’uscita poco opportuna. Ma non scrisse quel pezzo in mala fede. Semplicemente fu un esprimere quello che pensava, era fatto così: era uno sincero. E in quel momento, era convinto che alcuni giudici, fra cui Borsellino, dovessero le loro carriere a certe loro amicizie piuttosto che a reali meriti. Quando capì di avere sbagliato, rimase molto mortificato. Infatti ebbe poi modo di incontrare Borsellino e di avere un pacifico chiarimento con lui”.
L’ultimo flash risale a un firma-copie del video che lo vede protagonista di una immedesimazione con Tiresia al Teatro Greco di Siracusa. Una ragazza fra il pubblico chiede a Camilleri se vuole sposarla: “Signorina…sono già sposato da 60 anni con la stessa persona… Credo di appartenere a una razza in via di estinzione…”. La risposta dello scrittore sfolgora come una saetta, nei secoli dei secoli, fra gli applausi e le risate.
(gelormini@gmail.com)