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Antonio Motta, 'Gargano negli occhi. Pensieri di un flàneur'
L'introspezione di Luigi Maruzzi al commento di Antonio Motta "Gargano negli occhi - Pensieri di un Flàneur", sul testo di Lucia Tancredi 'Gargano negli occhi'.
Sull’ultimo numero della prestigiosa rivista “Nuova Antologia” (ott-dic 2019) è stato pubblicato un articolo del professore Antonio Motta (scrittore, poeta, saggista, editore, promotore di cultura ‘meridiana’), che potrebbe rappresentare l’estratto di un nuovo libro, che va ad aggiungersi a tanti altri suoi lavori.
Si vede che Antonio Motta ama il suo paese, anche quando San Marco in Lamis non è al centro delle sue attenzioni (quantomeno, in modo diretto). Sarà stato questo stato d’animo o altra ragione ispiratrice a fargli compiere un secondo “viaggio sentimentale” tra le località più caratteristiche del Gargano (1), non saprei dirlo. Fatto sta che dalla lettura di “Gargano negli occhi. Pensieri di un flâneur” emerge chiaramente quale sia il vero motore di scrittura del Nostro.
Chiunque leggesse quest’ultimo lavoro di Motta non potrebbe non scorgere, tra le sue parole, una persistente nostalgia per un'epoca passata alla quale, forse, anche lui avrebbe voluto partecipare. A questo suo “sentire” faccio risalire il gusto (presente in più punti dello scritto) di illustrare alcuni indicatori economici dei paesi visitati: ad esempio, il numero dei sandali che sul lago di Bagno di Varano arrivavano “quando in autunno c'era la pesca delle anguille” (pag. 258); o il numero dei telai che facevano di Vico “la cittadina più manifatturiera dei paesi del Gargano“ (pag. 266).
Il suo Gargano vede come protagonista una popolazione dotata di ingegno, operosa e con una spiccata vocazione alla cultura; definirei “devozionali” i suoi richiami alle figure di Pietro Giannone, Michelangelo Manicone e Pasquale Soccio. Ma non si tratta di orgoglio smisurato o di esibizione gratuita. Motta scrive sempre sotto sorveglianza della storia. Lo scopriamo soprattutto quando parla di testimonianze artistiche e, in questo senso, appare significativa la precisazione che inserisce nel testo subito dopo aver lodato il restauro conservativo realizzato per uno dei “Casini” (*) siti a Rodi Garganico in contrada Mascherizzo: “da noi non arrivarono i Vanvitelli” (pag. 256) che viceversa - mi permetto di aggiungere - lasciarono un’impronta importante a Troia (ne parla diffusamente Antonio Gelormini in “Episcopius Troianus”, Bari 2012).
Nei “Pensieri di un flâneur” scritto da Motta molta parte del discorso ruota attorno al rapporto tra territorio e modernità, vista in prima battuta come strumento di emancipazione che restituisce al popolo la possibilità di accedere anche ai piaceri intellettuali riscattandolo dalla miseria e dall'ignoranza (pag. 265). Poi, quando la stessa modernità arriva a stravolgere e devastare la natura che - nel caso del Gargano - conferisce costrutto identitario ad un intero territorio, il giudizio si fa più severo fino a scongiurare l'arrivo della modernità (“è un bene che se ne stia lontano”, pag.258), ad ammirare un paesaggio perché è ancora “primordiale” (riferendosi a Porto Varano, pag. 259), oppure a condividere l’estremo rammarico già espresso da altri per la scomparsa dell'unico corso perenne del Gargano “rubato da un impianto di depurazione” (la fiumara “Asciatizzi”, pag. 267).
La tesi che Motta porta tenacemente avanti è articolata e convincente, oltre che cristallina e coraggiosa: i) un paese che si reputi ricco di cultura e tradizioni non può concepirsi come un sito isolato senza sentirsi parte di un mondo più vasto eletto a proprio riferimento; ii) credere che questo modello di riferimento debba ricercarsi lontano è l'errore più deviante che si possa commettere; iii) la dimensione plurale non è solo uno strumento che aiuta a leggere gli elementi fisici di un territorio, ma rappresenta la modalità più tipica con cui l'uomo produce cultura e memoria; iv) soltanto il sentimento riesce ad aprire lo scrigno della bellezza e delle verità antiche che il territorio nasconde (“. . . felici di questo perderci in luoghi solitari e nascosti”, pag.257).
Come un sofisticato organo musicale, la penna di Motta modula il suo discorso passando attraverso diversi registri, egualmente sviluppati con ineccepibile piglio metodologico. Eppure, il registro che preferisco di gran lunga è forse quello più involontario di tutti, che gli deriva dal suo ‘imprinting’ poetico: ai suoi occhi assumono natura umana perfino “l’aria e il vento” (pag. 268).
Avrei voluto conoscere Antonio Motta molto prima. Fortunati possono dirsi coloro che hanno fatto parte del suo cenacolo editoriale. In realtà, anche oggi ama circondarsi delle persone migliori e la scelta di condividere il viaggio con la scrittrice Lucia Tancredi (3) ne è la prova.
Ma non è solo questo perché per lui l'amicizia vera si nutre di generosità. E in nome di questo valore arriva a sottrarre spazio prezioso alla sua stessa espressione artistica, chiamando a raccolta altri scrittori (viventi e non) - come Giustiniano Nicolucci, Giovanni Russo, Ivana Schiaffi e Francesco Rosso - che grazie a Motta possono continuare a ‘guidare’ i nostri occhi ogni volta che parliamo di Gargano. Al lettore arriva la gradevolezza della coralità che impregna tutta la narrazione; il lettore si sente come uno dei tanti commensali che allietano la tavola di Motta, prendendo parte alla rigenerazione di memorie che si credeva seppellite dal tempo ed incapaci di donare speranze nuove.
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(1) Antonio Motta, La luce incantata, San Marco in Lamis 1992
(2) Luoghi di villeggiatura dell’aristocrazia settecentesca.
(3) Lucia Tancredi, Gargano negli occhi, Macerata 2019