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Atti Parlamentari Senato del Regno d'Italia, Antonio Salandra e Grande Guerra
Analisi sulla Grande Guerra del Presedente del Senato del Regno, Luigi Federzoni, e del Capo del Governo, Benito Mussolini, alla morte di Antonio Salandra.
Luigi Federzoni, presidente del Senato del regno d'Italia: "PRESIDENTE. Abbiamo perduto uno degli uomini che onoravano maggiormente il Senato e la Nazione. Ci ha lasciato un altro dei grandi spiriti che ebbero parte massima nell'avvenimento decisivo dei nuovi destini d'Italia: la partecipazione del nostro Paese alla guerra mondiale. Antonio Salandra non è più.
La notizia tristissima, se pure non inaspettata, ridesta dal profondo dei cuori l'onda dei ricordi e degli affetti: tanto era legato il nome di lui alle vicende memorabili che tutti appassionatamente vivemmo con angoscie ed entusiasmi senza pari. Egli fu colui che, nell'ora assegnataci da Dio per risolvere se il popolo italiano dovesse prender posto fra quelli che fanno la storia o fra quelli che la storia subiscono, osò consapevolmente assumersi la responsabilità dell'atto necessario.
Di fronte a questa pagina culminante, che basta a consacrare il nome di Antonio Salandra alla gratitudine imperitura della Nazione, potrebbe dirsi che ogni altro atteggiamento di lui, anteriore o successivo, rientrasse in un ordine di contingenze accessorie, se non fosse più giusto e più esatto riconoscere in tutta la vita, in tutta l'opera del compianto Statista una perfetta unità di idee e di tendenze, le quali a volta a volta poterono determinare vivaci dissensi, ma meritarono sempre rispetto per la loro coerenza logica e morale.
Antonio Salandra era l'ultimo degno erede di quella gloriosa tradizione della vecchia Destra liberale che trovò nei pensatori del Mezzogiorno la sua coscienza filosofica e giuridica. Egli si era formato, a Napoli, sotto il magistero di Bertrando Spaventa, di Giuseppe De Blasiis, di Antonio Tari, e sopra tutto di Francesco De Sanctis. Con tali guide, per dirla con un'espressione sua, aveva cercato nella scuola la via della vita. Ma forse, com'egli pure ebbe a dichiarare, lo stesso ambiente storico della Puglia natia, col fascino delle suggestive memorie e dei solenni monumenti, aveva già esercitato un'influenza primordiale sopra l'anima meditativa del giovane studioso.
Di là, su gli alberi della rinascita europea, la promulgazione di un codice di leggi scritte, ordinatore di una società nuova; là, il più audace tentativo di trasfondere verso Occidente la grande civiltà orientale; là, sopra tutto, l'affermarsi e il perdurare del principio ghibellino d'un autonomo potere civile. Certo, fin dagli esordi della propria attività scientifica e politica, Antonio Salandra mostrò di seguire un indirizzo sicuro di pensiero.
Appena laureato in giurisprudenza, con la sua prima monografia di diritto pubblico, sottopose a una critica stringente la dottrina democratica della rappresentanza personale, rivendicando di fronte al travisamento contrattualistico un alto e organico concetto dello Stato. Poco dopo, ancora ignoto, ardì insorgere contro la dittatura intellettuale di Giovanni Bovio, demolendo con spietata veemenza l'ingenuo e caotico sistema ideologico sul quale essa fondava il proprio dominio sopra la generazione del tempo; e i risentimenti partigiani della polemica accompagnarono per lungo tratto la carriera di Antonio Salandra.
Ciò non impedì che essa procedesse rapida e felice. Egli salì infatti, per così dire, dal banco di studente alla cattedra universitaria, essendo stato chiamato in età di ventisei anni dal suo maestro Francesco De Sanctis a professare in Roma legislazione economica e finanziaria, e due anni appresso a esercitarvi quell'insegnamento, per la prima volta istituito in Italia, della Scienza dell'Amministrazione, al quale egli seppe conferire rigore di metodo e genialità di deduzione e di ricerche, in guisa da creare una mirabile scuola.
A Roma egli si accostò, per spontanea propensione, al cenacolo di scrittori e di parlamentari dell'opposizione liberale che si raccoglieva intorno a Silvio Spaventa, e divenne presto l'intimo, anzi il prediletto figlio spirituale dell'illustre Abruzzese, ricevendo da questo il crisma per il suo maturato orientamento. Il volume capitale di Antonio Salandra su La Giustizia amministrativa rappresenta lo studio più approfondito del problema che Silvio Spaventa aveva posto nei termini essenziali come "il maggiore che si incontri nella vita dei governi parlamentari".
Ma nell'inspirazione di tutta l'azione politica che il Salandra esplicò poi, dal giorno in cui, entrato alla Camera, secondo la affettuosa profezia dello Spaventa, ebbe a conquistarvi immediatamente una posizione di autorità, la quale lo portò ancor giovane a uffici di governo, fu sempre visibile, come ho accennato, l'intendimento di ricollegare quell'azione alla tradizione nazionale della destra, che lo Spaventa medesimo aveva sublimata con il suo eroismo e con la sua sapienza costruttiva di legislatore.
E vi era persino, nel temperamento dell'alunno, più di un aspetto che rispecchiava qualche lineamento dell'indole di Silvio Spaventa: per esempio, una certa istintiva difficoltà, simile in entrambi, a comunicare con le folle; una eguale incapacità di dissimulare il proprio disprezzo verso i gretti calcoli dell'opportunità utilitaria, nei quali si esaurivano troppo sovente persone e gruppi della politica militante dell'epoca; infine quello stesso gusto della battuta caustica, della frecciata penetrante, che costituiva il lusso più pericoloso per chi, essendo o essendo stato e potendo ritornare al Governo, avrebbe dovuto - alla stregua dell'usuale prudenza allora in uso - evitare di farsi dei nemici senza necessità.
Particolarità e analogie di caratteri, che, almeno in parte, possono dare ragione delle fortune dei due statisti, l'uno e l'altro meglio idonei a interpretare le supreme esigenze ideali della nazione, che non a padroneggiare con flessibile accortezza irrequietudini e appetiti di maggioranze. Infatti nei periodi della normale attività dello Stato, Antonio Salandra rimane discretamente un po' indietro, all'ombra del suo fraterno compagno di fede e di lotta Sidney Sonnino, in cui, morto lo Spaventa, riconosce volentieri il proprio capo, del resto, parimenti alieno da ogni "abilità" parlamentare.
La sua opera di ministro dell'agricoltura, delle finanze e del tesoro, nei gabinetti Pelloux e Sonnino, è più che egregia; ma in lui l'uomo di studio e di cultura emerge ancora su l'uomo di governo. Nella primavera del 1914 complicate congiunture parlamentari lo indicano adatto a reggere, con un Gabinetto suo, una situazione di difficoltà momentanee.
Egli deve sobbarcarsi al compito, e vi si accinge con scrupoloso senso di abnegazione. Ed ecco, nel quietismo, casalingo signoreggiante ancora la politica italiana, il colpo di folgore della tragica estate. Il Paese è impreparato; l'apparecchio militare, dolorosamente sproporzionato alla gravità dei fatali eventi che sopravvengono; su tutto sembra destinata a prevalere l'usurpazione dei partiti sordi o ribelli all'appello imperativo della storia.
Che conta, in mezzo alla bufera che sconvolge l'Europa, il Gabinetto Salandra? L'ha detto, con gelida impertinenza, allo stesso presidente del Consiglio l'imperial regio ambasciatore d'Austria-Ungheria von Merey, alla vigilia del conflitto: "Voi non avete alcuna autorità".
Ebbene, l'uomo di cultura e di studi, l'ultimo epigono della Destra nazionale intende l'appello della storia e affronta l'impresa con cui la Patria dovrà obbedire alla propria legge di vita e di grandezza. Egli ardisce fare, sa fare del suo Gabinetto di luogotenenza, contro tutte le avversità e resistenze della maggioranza parlamentare del tempo, un Governo di guerra, il Governo della grande guerra d'Italia. La dichiarazione di neutralità è il primo passo: essa svincola, insieme, la nazione dall'antica alleanza, e il Governo dalla soggezione verso i vecchi partiti.
Le logore insegne dei programmi dottrinari e delle vanità personali sono travolte dalla raffica impetuosa che si avventa dai sanguinosi campi dell'Ovest e dell'Est su l'Italia. C'è tutta una polarizzazione nuova di energie, una nuova corrente di spiriti che rivela l'anima perpetuamente giovane del popolo. Quelle che non contano più sono le oligarchie ieri potenti. Antonio Salandra chiama accanto a sé Sidney Sonnino.
I documenti, che contengono il suo invito a colui che era stato il suo capo e riferiscono l'accettazione di questo, provano quanta reciproca delicatezza, quale senso oggettivo del dovere comune, quale lealtà e precisione di limiti nelle responsabilità rispettive ponessero le basi di quella feconda collaborazione, da cui i due uomini si innalzarono ingranditi.Scocca l'ora della Provvidenza. Adesso o non più, per l'Italia. La gioventù che dovrà battersi, che è impaziente di battersi, acclama alla guerra. Balena nelle piazze tumultuanti una volontà d'acciaio che parla un linguaggio non mai udito di durissima fede e preannuncia, con il raggiungimento della Vittoria, la più alta rigenerazione della nazione.
Antonio Salandra deve essere l'alacre e risoluto realizzatore della necessità storica, contro le estreme torbide ma illusorie riluttanze dei vecchi partiti. Il grande Re che, per la salute della Patria, ha visto primo di tutti le vie dell'avvenire, gli dà conforto e sostegno nel momento di decidere e agire. Non rievocherò l'opera di Antonio Salandra durante la sua permanenza al governo nel primo anno della guerra, ché tutti la rammentiamo con gratitudine somma.
Essa non fu, non poteva essere senza manchevolezze; ma oggi, considerata nella prospettiva degli avvenimenti, appare sorretta da un unico proposito, da un costante pensiero: il vittorioso compimento delle aspirazioni nazionali; e i difetti, quando ci furono, devono sopra tutto riferirsi alle tristi insufficienze della situazione iniziale e agli ostacoli che all'azione del Governo, pur dinnanzi a così terribili problemi, opponeva il sistema politico nel quale e col quale essa aveva pure da concretarsi. Quella fu la profonda radice della crisi di un regime, che doveva mettere in disagio la coscienza liberale dello stesso Salandra, e che solo al coraggio rivoluzionario del fascismo sarebbe stato possibile risolvere un giorno.
Ma non posso astenermi dal ricordare a quale atroce persecuzione morale Antonio Salandra fosse esposto dopo che egli ebbe lasciato il Governo, e più ancora negli anni dell'amara pace, e con quanta fierezza e dignità egli sapesse sostenere quel vero martirio, con cui i demagoghi e i farisei che non erano riusciti a evitare né la guerra né la vittoria cercarono vendicarsi su lui dell'una e dell'altra.
Antonio Salandra non aveva più ambizioni: non poteva più nulla temere. Egli apparteneva già alla storia, che aveva già giudicato l'opera sua e levato alto il suo nome fra quelli degli artefici d'una Patria più gloriosa e più forte. La generazione che aveva fatto la guerra e ascendeva al comando, in difesa delle idealità per le quali si era generosamente sacrificata e che voleva ad ogni costo attuare in un più puro clima spirituale e politico della Nazione, si inchinò grata e reverente allo Statista che era stato pari alla gravità della propria missione.
Ma ogni cosa era mutata, intorno: cominciava davvero un'età nuova, che presentava problemi indifferibili, nei quali era coinvolta l'essenza medesima dei principi direttivi dello spirito di Antonio Salandra e di tanti fra i migliori della sua generazione. Il distacco fra lui e il Fascismo doveva avvenire e avvenne; ma con mutuo rispetto, con serena ricordanza di quella che era stata la piena e appassionata solidarietà nel volere, nel realizzare insieme la gloriosa impresa onde l'Italia era uscita rinnovellata.
Oggi, dinnanzi alla salma lacrimata, non v'è più da rammemorare e riconfermare se non quell'incancellabile solidarietà; non v'è più da rievocare, col nome non perituro di Antonio Salandra, se non la poesia immortale della vittoria.
Il Senato, che fu durante la guerra e dopo la guerra presidio incrollabile della fede nella Patria, rivolge il suo omaggio di commossa riconoscenza alla memoria dell'insigne Statista che credette, osò e agì per l'Italia".
BENITO MUSSOLINI, Capo del Governo: "Nella introduzione al volume sulla neutralità, che, insieme col successivo sull'intervento, l'on. Salandra scrisse in questi ultimissimi anni (altro prezioso servigio reso da Lui alla Patria), si leggono le seguenti parole: Dall'attività politica alla quale ho dedicato la mia esistenza, ai figli miei, per mia e per loro volontà, non è derivato alcun vantaggio: né di titoli araldici, né di accresciuto patrimonio, né di cospicui uffici facilmente conseguiti; resta il nome, ed essi hanno pertanto il diritto di pretendere dal padre loro che egli non ometta per accidia o per disdegno di lasciare scritta, se può, qualche pagina di storia, in persona prima.
In questa breve notazione autobiografica ci appare chiara ed integra la figura di Antonio Salandra. Egli poteva scrivere senza peccare di vano orgoglio queste parole non prive di solennità. Resta il nome, e resterà non solo perché legato a tutta la vita politica e parlamentare dell'ultimo cinquantennio, ma perché toccò ad Antonio Salandra di prendere la decisione più alta, più angosciosa, più imprevedibile nelle sue conseguenze, che un grave destino possa riservare ad un uomo di Stato: quella di dichiarare la guerra.
Per noi delle penultime leve, l'attività di Antonio Salandra anteriormente al maggio 1915 ha un valore che rientra nella vicenda normale della politica del tempo. ma chi può pronunziare il nome di Antonio Salandra senza rivivere nel ricordo il Maggio dell'intervento, la condotta virile e sdegnosa tenuta da Lui in quelle ardenti giornate, condotta che Egli ha giustamente rivendicato?
Chi può non ricordare il grande memorabile discorso del Campidoglio, che fu il primo viatico ai combattenti in marcia verso i confini e diede una vibrazione profonda alla Nazione, la quale, diradate le ultime nebbie della contesa e dell'intrigo, si stringeva in falangi concordi, per resistere, per vincere?Antonio Salandra, al disopra delle fazioni parlamentari, raccolse la voce delle moltitudini, ascoltò l'invocazione degli irredenti, sentì nei protagonisti del Maggio gli annunziatori della nuova coscienza della Patria, e lanciò la parola suprema.
È nel 1915 che Antonio Salandra ha "fatto" la storia: quella storia, che Egli scrisse soltanto dopo 15 anni, sentendo la sua vita al crepuscolo. Uomo di destra, nel senso nobile e austero di questa parola fra il '60 e il '76, Antonio Salandra simpatizzò apertamente negli anni oscuri del dopoguerra con le forze nazionali e con quelle del Fascismo. Il discorso pronunziato a Milano fu un atto di fede. All'inizio del 1925 egli credette che il Regime Fascista potesse rientrare nell'alveo della vecchia pratica costituzionale, ma dopo il 3 gennaio egli comprese che la Rivoluzione non poteva scendere a compromessi, poiché fin dal gennaio 1923 la rottura fra il vecchio ed il nuovo regime si era verificata definitiva e irrevocabile.
Antonio Salandra si ritirò praticamente dalla vita politica, ma non mancò di manifestare la sua solidarietà al Governo fascista e nella politica finanziaria ed in quella verso la Chiesa. Un alto senso del dovere dello Stato, particolarmente operante, guidò tutta l'attività di Antonio Salandra: nel Parlamento, negli Ufficio, nel Governo, nelle Università. Signori Senatori, il Governo si associa alle parole del vostro Presidente e al cordoglio dell'Assemblea".
Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 9 dicembre 1931.
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Pubblicato sul tema: La Grande Guerra, Antonio Salandra e il ricordo in Senato del 1931