PugliaItalia
Auditorium-Bari dedicato a Nino Rota Inauttuale e intramontabile 'postmoderno'
L'inaugurazione a Bari dell'AUDITORIUM intestato a Nino Rota e il saggio scritto da Pierfranco Moliterni sui rapporti tra il maestro e la Puglia
""…e dato che oramai sei pugliese d’adozione, o quasi, penso ti possa interessare sapere che esiste alla Biblioteca Nazionale di Parigi una partitura della “Bella Molinara” di Paisiello con parecchie arie, rifatte di trinca, da...Cherubini. E una faccenda ripeto che ti potrebbe interessare".
Quanto scriveva, nel 1971, all’amico fraterno Nino Rota, il musicologo Domenico De Paoli [1] è solo una breve ancorché significativa annotazione del rapporto davvero esistenziale, prima ancora che artistico, tra il compositore milanese allievo prediletto di Casella, e la Puglia con la sua civiltà musicale.
Civiltà musicale tout court che condurrà Rota a coltivare per quasi quarant’anni di intensa attività compositiva tanto un interesse per la riscoperta dei musicisti pugliesi (di nascita) appartenenti alla scuola napoletana del XVIII secolo (Paisiello, Piccinni, Leo, Traetta ma anche Insanguine, Tritto, Fago, Latilla) testimoniato da un fondo ancora oggi esistente nella biblioteca del conservatorio di Bari; quanto una predisposizione personale al “travestimento’’ in chiave colta del patrimonio musicale popolare regionale.
Operazione culturale la quale, a guardar bene, si colloca in perfetta sintonia con un precipuo aspetto del magistero caselliano allorché, agli albori della stagione primonovecentesca, esso proponeva alla musica italiana degli anni ‘20-’30 un’inversione acuta e persino ideologica rispetto al folklore musicale.
Si pensi, per tutti, a quella sorta di manifesto programmatico affidato ad alcuni passi del volume autobiografico I segreti della Giara; o meglio ancora a tre sue composizioni: la rapsodia Italia del 1909, le musiche per il balletto La Giara del 1924, e Partita e Serenata per orchestra del 1926.
Opere che Casella giudicava come il tentativo di affrontare "per la prima volta il problema di uno stile ad un tempo italiano per il suo spirito ed attuale per il linguaggio sonoro", e dunque come possibile via di fuga dalla crisi del linguaggio musicale tonale evidenziata, in quella fervida stagione, dai due poli antitetici del Pierrot schonberghiano e dal Sacre stravinskiano.
Composizioni davvero epocali queste ultime, per niente casualmente ospitate da Casella nei programmi di alcune memorabili stagioni della “sua” Società nazionale di musica − Società Internazionale di musica moderna fondata nel 1917 in quanto diretta e personale emanazione di una convinzione estetica, prima che politico-culturale, in cui è agevole trovare riscontri con il dibattito europeo più avvertito sulla crisi della “grosse musik” e sui possibili modi di uscirne [2].
L’influenza di Alfredo Casella su Rota, per altro ben documentata dai suoi biografi [3], si misura quindi anche dal peso di questo particolare e sentito problema, comune a entrambi sul piano tanto di una riflessione teorica quanto su quello, prevalente nell’allievo, d’una applicazione compositiva neanche tanto nascosta, sì da abbracciare nella produzione musicale in egual misura e importanza sia i campi colti (sinfonie, musica da camera, musica religiosa, teatro musicale) che quelli più specificamente applicativi e ritenuti minori come la musica per film. Non da ultima, una comune propensione al “gioco musicale” su stili di determinati grandi compositori del passato, a dimostrazione di una straordinaria assimilazione dei rispettivi meccanismi interiori e linguistici (ovvero, sarebbe meglio dire, come sottile forma di esercizio neoclassico?) si intravede in alcune composizioni minori come l’op. 17 per pianoforte di Casella, A la manière de..., in cui si fa abilmente il verso a Wagner, Fauré, Brahms, Debussy, Strauss e Franck.
Ma è al “Giovannino” Rota - scalpitante rampollo d’una nota famiglia della alta borghesia milanese che respira musica quasi da mane a sera e che ha frequenti contatti con il mondo musicale europeo [4] - che dobbiamo per prima cosa riferirci allorché la sua avventura umana sconta alcuni obblighi sociali consueti per quel tempo; come quando, a ventinove anni, “deve” iscriversi alla Federazione milanese del Partito Fascista e più tardi prendere parte ai Ludi Juveniles della Gioventù Italiana del Littorio [5].
Mentre d’altra parte, la precoce sua formazione culturale e musicale si concretizza nel dicembre del 1929 con il conseguimento del diploma di Magistero in Composizione rilasciatogli a Roma dalla Regia Accademia di S. Cecilia e quindi, nel 1936, con la laurea in “Belle Lettere” all’Università di Milano dove discute una tesi di laurea, originale per quei tempi, su Gioseffo Zarlino.
Tappe importanti d’una preziosa formazione avvenuta all’ombra di Alfredo Casella a Roma, di Ildebrando Pizzetti e Mario Castelnuovo Tedesco a Milano, Fritz Reiner e Rosario Scalerò al "Curtis Institute” di Filadelfia dove incontra come colleghi Giancarlo Menotti, Samuel Barber e Aaron Copland; una formazione che poi sfocia nella carriera d’insegnamento che, nel 1937, a soli ventotto anni, gli si apre davanti con una sola e esclusiva prospettiva: trasferirsi a Taranto presso il Liceo Musicale “Paisiello” come docente non di ruolo d’Armonia principale e con l’incarico di Armonia Complementare e Solfeggio.
Una scelta di vita, più che una semplice esperienza di lavoro, va dunque ascritta al Rota che non ancora trentenne, musicista maturo (già abbastanza noto tanto da risultare nel 1932 vincitore, insieme a Dallapiccola e per la sezione giovani compositori, del festival musicale della Biennale di Venezia con Balli per piccolo ensemble) benché reduce dall’esaltante esperienza americana, sceglie di trasferirsi da Milano in Puglia, da uno dei centri più vivaci e impegnati della musica europea a una regione che, alle soglie degli anni quaranta del ‘900 non doveva certo brillare per attività e serie prospettive musicali.
Fatto sta che il giovane maestro, accompagnato da quel personaggio fondamentale della sua vita che fu la madre Ernestina Rinaldi, passa in Puglia e vi rimane subito e stabilmente se è vero che nel 1939, dopo i due “anni di galera” in cui a Taranto è una sorta di tuttofare del nascente Liceo musicale, vince il concorso nazionale per titoli e esami alla cattedra più prestigiosa di tutte in un istituto musicale, Armonia e Contrappunto, indetta dal Liceo consorziale “Niccolò Piccinni” di Bari. Inizia qui davvero la sua lunghissima carriera pugliese di docente e di funzionario statale che direttamente influirà su talune scelte musicali che qui, per l’appunto, intendiamo dimostrare.
Dal 1939 al 1949 Rota insegna a Bari, e da quell’anno in poi, per trent’otto anni di fila, sino al 1977 è direttore del Liceo e quindi, a statizzazione avvenuta, del ‘Conservatorio di musica Niccolò Piccinni’. La stessa sua vera méntore, la madre Ernestina Rinaldi, così annota in un diario, e non senza sorpresa, la inaspettata decisione del figlio di accettare una sede tanto lontana da quegli interessi, amicizie e opportunità carrieristiche da lei così amorevolmente perseguite: "Nino attratto dai paesi del sole, concorse a mia insaputa alla cattedra di armonia all’Istituto Paisiello di Taranto. Fu nominato e, questa volta, lo vidi partire con più acuto dolore. Non era più la brillante parentesi americana, dalla quale artisti e amici si avvicendavano portandomi notizie. Taranto, confinava al fondo dello stivale, stava virtualmente più lontana dalle Americhe e nessuno potevo aspettarmi di laggiù né contare su alcun contatto amico".[6]
Sarebbe certo utile, a questo punto dar conto della situazione musicale che il giovane maestro milanese trova al suo arrivo a Bari, e tanto per tarare al meglio la davvero sorprendente decisione che egli prende, subitaneamente: andare a vivere e abitare nel borgo di pescatori alle porte della città, a Torre a Mare, al numero civico 40 di via Leopardi.
La Bari della musica, grazie allo slancio statale e privatistico insieme caro ai dettami di politica culturale del suo Podestà (poi ministro dei Lavori Pubblici) Araldo Di Crollalanza, si muove tutta all’ombra del sistema delle sovvenzioni introdotto dalla legge fascista n. 438 del 1936 per cui, ad esempio, il massimo teatro pugliese - il teatro privato Petruzzelli” - viene gestito da un nugolo di impresari che si avvicendano e operano senza lasciar durevole traccia, supini alla sola logica del profitto, grazie a cartelloni e pseudostagioni liriche di basso profilo che impediscono loro persino di accorgersi della presenza a Bari di un tal prestigioso compositore di stampo europeo.
Non è quindi un caso se un’opera di Rota al “Petruzzelli” dovrà attendere circa trent’anni - nel 1965 e poi nel 1971 - prima d’essere ospitata con alcune recite de I due timidi (libretto di Suso Cecchi D’Amico) preferendosi invece dar voce a sbornie epigoniche di oscuri musicisti operanti all’ombra e in ossequio al sistema culturale e politico dominante, come è per il caso di Mary Rosselli, Ezio Camussi, Umberto Balestrini, Lamberto Landi, Pietro Canonica, Dino Milella e Francesco Morini [7].
Ma il maestro milanese che oramai si andava sempre più radicando nei modi e nei mondi artistici pugliesi che qui di seguito scopriremo, intuiva del pari che doveva egli stesso, e in prima persona, operare affinché l’istituto musicale da lui diretto, in fase di crescita esponenziale nel numero degli alunni e degli insegnanti (nel 1940, all’indomani del suo arrivo, si contavano 93 alunni in 15 classi di strumenti principali; dopo circa dieci anni, nel 1949, si giunge a 156 iscritti distribuiti in 21 classi principali) [8] potesse essere capace di porsi in sintonia col mondo del lavoro musicale qualificato, magari partendo da Bari e per Bari.
Non a caso dunque, all’indomani della conclusione della guerra e dopo aver composto per intero a Torre a Mare la musica del Cappello di paglia di Firenze, Rota porta a compimento un progetto che lo vede assumere talune responsabilità gestionali che, di certo, non rientravano nel novero dei suoi interessi né nelle corde di una personalità così restìa a coinvolgimenti pratici: dal 1949 al 1957 per suo diretto impulso si dà vita a un’orchestra da camera (e poi sinfonica) antesignana di gestioni che oggi sarebbero considerate esemplari mediante una fondazione mista, pubblico-privato, che governa l’attività musicale cittadina mediante concerti eseguiti dai propri aderenti (per lo più docenti dello stesso Conservatorio) e da solisti appositamente ospitati.
Una sorta di piccola rivoluzione della musica colta pugliese si invera dunque all’ombra del Liceo Musicale “Piccinni”, vuoi perché il direttore artistico è lo stesso suo direttore, vuoi perché il legame genetico con l’istituto è assicurato a vari livelli (docenti che suonano insieme ai loro allievi, staff dirigenziale etc.): sono quelli gli anni molto interessanti della “Fondazione dei Concerti Piccinni” in cui l’intelligenza, i contatti nazionali e internazionali offerti da Nino Rota spiegano il perché di stagioni di così notevole livello per Bari e la Puglia musicale come investita nel giro di appena un decennio da un’esperienza musicale che la imparenta con i centri musicali italiani di ben più salde e solide tradizioni.
Ad esempio, per i programmi concertistici dal 1951 al 1955, Rota fa giungere a Bari alcuni nomi di quello che diverrà, di lì a poco, il gotha della musica europea: da Aldo Ciccolini, al Trio di Trieste, da Arthur Grumiaux a Benedetti-Michelangeli, a Szering e Remy Principe, a Janigro, Uninsky, Maria Tipo, il Quintetto Chigiano e l’Orchestra da camera di Vienna con Carlo Zecchi, il Quartetto Vegh, Riccardo Odnoposoff, l’Orchestra della Scarlatti diretta da Herbert Abert, Tito Aprea, Dino Asciolla e Pierre Fournier.
Non è affatto un caso che quelli sono i medesimi anni in cui il maestro, risiedendo proprio a Bari (Torre a Mare) e non allontanandosi quasi mai da quella sede d’elezione per motivi che, evidentemente, travalicano gli aspetti di un comprendibile buen retiro, accresce la sua fama di compositore principe di colonne sonore ad uso di registi i cui film sono rimasti fondamentali nella loro personale filmografia: da Napoli milionaria e Filumena Marturano di Eduardo De Filippo, a Lo Sceicco Bianco e La Strada, I Vitelloni, Il Bidone, Le notti di Cabiria di Fellini, passando da Le notti bianche di Visconti sino a Guerra e Pace di King Vidor e II Padrino di Coppola: tutta musica pensata e composta tra la città adriatica e il suo borgo marinaro e in cui alcuni influssi della tradizione musicale popolare pugliese sono facilmente riconoscibili.
È il caso appunto della colonna sonora del fortunato film che gli valse l’Oscar per la migliore musica originale. Rota in una intervista radiofonica riportata dai suoi biografi riferì: "[Coppola] mi disse, inoltre, che era ancora meglio se questa musica [Il Padrino] si orientava verso melodie meridionali, fino a sembrare arabe: perché avrebbe richiamato con più nostalgia la lontanissima origine di quella gente che è poi confluita in America. [...] Rimasi molto perplesso, pensando che fosse inutile che mi spremessi le meningi per cercare qualcosa di nuovo. Ho scelto una rosa di quattro o cinque temi di altri film, di cui avevo composto le colonne sonore, di carattere meridionale o napoletano o siciliano o pugliese che fosse, e sono andato - secondo il mio solito - ad affliggere i miei amici per fare loro giudicare quale di questi temi fosse il migliore. Finalmente ci siamo soffermati su un tema che avevo composto per un film di 15 anni prima [il film è Fortunella, regia di Eduardo De Filippo, 1958, n.d.r.]. Un tema che nel film precedente era molto allegro: una marcetta sfottente. Avevo notato che, facendolo disteso e romantico, guadagnava di molto. L’ho elaborato, vi ho inserito un tema centrale diverso ed è venuto fuori il tema del Padrino, il tema del film".
Influssi folklorici popolari che investono, parimenti, anche la sua produzione colta, come dimostra la citazione del tema principale (pugliese) del primo tempo della sua Sinfonia sopra una canzone d’amore composta a Torre a Mare nel 1947, poi diventata, a mo’ di ripetuta autocitazione postmoderna, il tema del film di Henry Cass La leggenda della montagna di cristallo (1950) e infine quello de Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963).
Tornando al merito di quelle stagioni concertistiche, si può notare come alcuni dei solisti - per lo più giovani o giovanissimi interpreti che non erano al tempo ancora del tutto noti - Rota li va a scovare nel mare magnum del concertismo di vaglia, grazie ad un intuito e una capacità di discernimento assolutamente straordinari.
A scorrere i programmi, abbiamo notato una costante presenza di musiche di Casella, e tra esse, più volte eseguita, La Giara, segno che il progetto del maestro continuava a lasciare in lui echi profondi e incancellabili. Si giunge così al 1955, allorché l’Orchestra da camera della “Fondazione del Liceo Piccinni” fa il gran salto e sbarca a Roma ospite della “Società Filarmonica Romana” con un concerto preparato e diretto da Rota stesso, d’intesa con la Società Italiana di Musica Contemporanea (SIMC), e cioè, ancora una volta, con un organismo musicale di derivazione caselliana.
Certo è che l’esperienza lungimirante, coraggiosa, originale e innovativa della “Fondazione” e della sua orchestra di elementi locali rimarrà un dato storico fondamentale per Bari e la Puglia musicale di quest’ultimo cinquantennio: senza di essa non si sarebbe neppure potuto impostare l’attuale assetto della vita musicale barese e pugliese con il nerbo delle associazioni musicali storiche che tuttora derivano, persino nel personale artistico che le gestisce, da quella esperienza indotta da un milanese innamorato della Puglia.
Dunque, un rapporto dapprima diretto (anni 1949-1957), poi sempre più indiretto e mediato da validi collaboratori del Liceo-Conservatorio, è quello che si instaura tra Rota e l’ambiente musicale cittadino. Il Maestro si circonda di un corpo docente che egli stesso seleziona; una sorta di gentile, dolce e ironico “padre-padrone” permette che da Bari passino come insegnanti di Conservatorio alcuni tra i più bei nomi del concertismo italiano, lasciando evidentemente tracce durature nei loro allievi: da Aldo Ferraresi a Franco Rossi, da Giorgio Menegozzo a Ornella Puliti-Santoloquio, Armando Renzi, Franco Tamponi, Franco e Bice Antonioni, Dino Asciolla, Luigi Celeghin, Luciano Amadori, Franco Petracchi, Franco Medori, Raffaele Gervasio, Giuseppe Scotese, Aldo Tramma e Gabriele Ferro.
L’impostazione di un lavoro occulto di riqualificazione su basi nazionali del corpo-docente (nel 1975 esso sale a ben 47, con un numero totale di alunni che sfiora le 700 unità) fa il paio con il progetto di costruzione di una sala da concerti annessa al conservatorio (l’attuale “Auditorium” che porta il suo nome) e d’una gemmazione di sedi periferiche che fondano un vero e proprio movimento musicale duraturo in Puglia e nella vicina Basilicata, grazie anche alla nascita di sedi distaccate a Monopoli e Matera, e in seguito a Rodi Garganico: un dato storico che spiega il profondo cambiamento dello spessore musicale della regione, l’allargamento della base di fruizione e l’introduzione di qualificati profili professionali.
* * *
Quella che abbiamo appena documentato come una scelta di vita del Rota direttore di Conservatorio - e quindi delle ineludibile funzione di animatore della vita musicale pugliese che ne resta durevolmente “impressionata” persino al di là e al di sopra della sua personale volontà - si riverbera per forza di cose nelle pieghe della sua musica che non poté non risentire di una frequentazione con i “sapori”, le sonorità, le melodie folkloriche, popolari o pseudopopolari e revivalistiche che egli ebbe sicuramente modo di conoscere e da cui, come cercheremo di dimostrare, si dipartono certi “toni” della sua maniera colta e filmica.
A partire dalla mera consultazione del catalogo delle composizioni rotiane in cui scopriamo che la sua Sinfonia n. 2 (1939) porta il nome (e spunti popolar-musicali) della città in cui iniziò la sua carriera di docente, Taranto. La sinfonia detta Tarantina è il primo lavoro di un trittico pugliese composto dalla Ouverture La Fiera di Bari (1963) e dalla Ballata per corno e orchestra Castel del Monte (1974) in cui, al di là dell’aperta occasionalità, chiari sono alcuni influssi musicali popolari pugliesi. Ma la stessa formazione del Rota adolescente - enfant prodige nella Milano degli anni trenta, allievo di Pizzetti e, soprattutto, di Casella; sodale a Filadelfia di Copland che con il suo El Salon Mexico è uno strenuo sostenitore negli USA del “folklore ricreato” - diventa per noi un dato ineludibile per comprendere al meglio il Rota-pugliese.
È altresì chiaro che la frequentazione della musica americana di Porter e Gershwin si innesta in quella, ancestrale, milanese e familiare, della musica popolare italiana di Ranzato, Cucinà o Pietri, del resto comune anche ad alcuni compositori colti suoi coetanei come Bucchi, Ghedini o Veretti, magari rivisitata o opportunamente bagnata in preziosismi raveliani. Sono anche quelli gli anni dell’avvicinamento di Rota a Stravinskij in cui ci pare di scorgere qualcosa che va ben al di là d’un sincero e duraturo innamoramento musicale [9].
Nella Poétique musicale non a caso, Stravinskij richiama più d’una volta l’importanza e la positività della melodia come vero asse portante del discorso musicale: "Ciò che sopravvive a tutti i cambiamenti di sistema é la melodia [...] la capacità melodica è un dono, non ci è dato svilupparla con lo studio. L’esempio di Beethoven è indicativo: uno dei più grandi creatori della musica passò l’intera vita a implorare l’assistenza di questo dono che gli mancava. Bellini invece ha ricevuto la melodia senza essersi data la pena di domandarla. Io comincio a pensare, d’accordo con il grande pubblico, che la melodia debba conservare il suo posto al sommo della gerarchia degli elementi che formano la musica. La melodia è il più essenziale, non perché sia il più immediatamente percettibile, ma perché è la voce dominante del discorso musicale". [10]
Ma quale melodia? Come vasto continente sommerso, il mondo musicale popolare − relativamente al “periodo russo” − è stato pazientemente riportato alla luce da alcuni studi che hanno fatto scalpore [11] grazie a ampie citazioni stravinskiane presenti, a tacer d’altri, nell’Oiseau, in Petrouska, nel Sacre, in Feux d’artifice: intere sezioni di musica folklorica russa, estone e persino francese, come il curioso motivetto Elle avait une jambe en bois nella favola del burattino triste di Pietroburgo.
Tal quanto, mutatis mutandis, fa Rota a partire dagli anni fervidi di progetti e idee che lo catapultano, lui colto e informato compositore, nel profondo sud d’Italia in cui vige un mondo di suoni e melodie popolari per lo più veicolate dalle bande da giro pugliesi di cui il maestrino milanese diventa, ci è dato sapere, un autentico e fanatico conoscitore. In ricordo di Torre a Mare, il borgo di pescatori alle porte di Bari in cui cerca e trova una sede di studio e di vita, egli stesso compone addirittura un breve e ingenuo “inno” di cui conserviamo il testo, ma non la musica [12].
Una popolarità sincera, sentita, mai demagogica e colonizzante: la sua Puglia diventa, per lui musicista oramai proiettato in riconoscimenti internazionali, qualcosa di più intimo, un mondo segreto e amato perché espressione dei divi minorum gentium, degli umili e dei semplici, degli abitanti il borgo marinaro che lo riconoscono per strada, come fanno gli abitanti dei paesini limitrofi i quali lo indicano come uno di quelli che «sta con il naso all’insù» mentre si confonde, tra di loro, per ascoltare sulla cassarmonica illuminata, le bande di Gioia del Colle e di Squinzano, di Acquaviva delle Fonti e Ceglie Messapica, di Conversano e Carovigno.
In passato, il piccolo Giovannino, a dodici anni, durante un soggiorno in Francia, prima nella fiamminga Turcoing in cui aveva diretto il suo oratorio L’infanzia di San Giovanni Battista, e poi a Parigi città in cui aveva incontrato, visitando il Circo Medrano, i mitici Fratellini, aveva come durevolmente metabolizzato un elemento del proprio, come dell’altrui mondo infantile: il circo, e soprattutto per lui musicista ancora in erba, la musica del circo [13].
Da qui una passione e poi una sorta di manìa - quella di citare in seguito, in ogni film per Federico Fellini - di marce e marcette, sostanze sonore di bande, quasi magico gioco della memoria che seppe mirabilmente accomunare il regista al suo musicista preferito.
In uno stile singolare e démode che fa della citazione musicale popolare, ma anche colta ( Rossini, Verdi e Donizetti nella sua opera migliore de II Cappello di paglia di Firenze, ma anche Ravel o Kurt Weill; nella Rabelaisiana, tre canti per voce e orchestra su testi di Rabelais, 1977 nel terzo brano, Io Pean, Rota cita ampiamente Asie di Ravel) qualcosa di molto diverso dalle funzioni che essa assumeva in Gustav Mahler.
E a tale proposito, si potrebbe cautamente avanzare un’ipotesi interpretativa decisamente audace: Rota come uno dei primissimi (inconsapevoli) musicisti “postmoderni”, capace in quanto tale di mettere la parola fine a quell’aspra diatriba critica che lo volle stigmatizzare come musicista conservatore e nostalgico, al più come una sorta di Poulenc italiano o di Satie cattolico, fuori moda, “inattuale” nella sua attualità, si disse, in uno con uno dei suoi più ostinati estimatori come Fedele D’Amico [14].
Superando d’emblée alcune forzature e qualche equilibrismo critico, e non dimenticando che il termine stesso di postmoderno incominciava a circolare già agli inizi degli anni settanta, ecco che la sua produzione musicale potrebbe essere quindi letta secondo la chiave postmoderna di una categoria estetica che afferma la cancellazione del confine tra cultura alta e cultura di massa. Un postmoderno che impose (come dimostrò nel suo fondamentale e noto saggio Jameson [15] ) testi o musiche che dir si voglia, "pervasi di forme, categorie e contenuti di quell’industria culturale tanto appassionatamente denunciata da Adorno e dalla Scuola di Francoforte".
"Il postmoderno ha subìto tutto il fascino di questo paesaggio degradato di Kitsch e di scarti" [16], o di "rottami della grande musica d’età classico-romantica", come ebbe a dire il francofortese... perché è soprattutto nel rapporto col passato, con la memoria, con la tradizione e la storia che si gioca sul piano di una credibilità estetica o di un rinnovato successo della musica di Nino Rota, l’appartenenza di diritto a quella categoria, invero oggidì attualissima, d’un musicista “inattuale” come il maestro milanese, pugliese per adozione e convincimento.
Sappiamo per altro della piatta omologazione della musica d’oggi che attanaglia persino le più avanzate esperienze contemporanee; ovvero del fallito tentativo di programmato saccheggio della musica del passato da parte di compositori cosiddetti neoromantici. Un "primato crescente del 'neo' " - come lo ha ben definito Henri Lefebre - accomuna questi ultimi a Cage e ai minimalisti Glass, Nymann e Riley la cui musica, con combinazioni di stili classici e popolari, non è più parodia e stra-niamento come nel miglior Stravinskij neoclassico, ma solo fredda imitazione, anonima e cadaverica lingua di stilemi musicali in “coma depasser”.
Rovesciando dunque la prospettiva, si può ben dar ragione a Adorno per sostenere la nostra ipotesi: non Schönberg e il suo sistema seriale, ma Igor Stravinskij (con i suoi adepti vicini o lontani, come ad esempio Luciano Berio e Nino Rota) sono i veri precursori del postmoderno in musica.
Nella “età dei frammenti”, come la definì Virginia Woolf, quegli artisti diventano gli architetti consci o anche inconsci di questo nuovo edificio della cultura degli anni settanta-ottanta che abbiamo abitato e stiamo ancora abitando, tanto più che Rota ha fondato il suo credo musicale su uno di quei corollari estetici: la incapacità di rappresentare attivamente il nostro presente storico, da cui deriva il continuo procedere per immagini come in una sorta di galleria fotografica; o trattandosi di musica, il comporre per suoni e stili fermi e bloccati nel passato, assolutamente immobili persino nel sistema in cui sono stati scritti (tonalismo).
Conseguenze dirette di questo credo esistenziale, prima che estetico, furono per il compositore milanese (e solo per alcuni altri pochi “nostalgici”) lo svuotamento di qualsiasi funzione delle avanguardie storiche e un piacere di mescolare alla musica colta le movenze della cultura popolare che per Rota erano da rinvenirsi in ogni dove: nella canzone da balera, nel jazz, nella canzonetta della “Pappa col pomodoro”.
Alla complessità intellettuale della citazione mahleriana e dello straniamento parodico dello Stravinskij neoclassico, si viene sostituendo, nell’età della nascente musica postmoderna, la «strategia retorica del pastiche», come dice Ceserani ovvero, con Pischedda, «il pastiche diventa il vero sostituto postmoderno della parodia». Ebbene, quella «mancanza di profondità» e di movimento, quel particolare gusto della superficie o di un nuovo senso della superficialità [17] genera nostalgia, vagheggiamento, desiderio struggente di un passato che non c’è più.
Genera, nella musica di Nino Rota, quel che Lorenzo Amiga chiama la "musica della memoria"; e non è un caso che ciò sia ancor di più avvertibile allorché la sua musica si sposa con l’immagine filmica felliniana di cui ne riveste i sogni e le ricordanze (Amarcord del 1973 è sorprendentemente dello stesso anno di American Graffiti di George Lucas; ma già il binomio Rota-Fellini aveva cominciato a sperimentare quella «maniera nostalgica» dell’infanzia e del tempo passato in film come Giulietta degli spiriti-1965, I Clowns-1970 e Roma-1972).
Una “maniera” che attinge dalla miniera della nostalgia musicale in cui Rota va a incastonare il più personale dei suoi modi compositivi: la banda popolare. Dove per Rota popolare sta per Puglia. Chiediamoci infatti in quale altro luogo della memoria e del presente vissuto, il raffinato musicista cultore di Ravel e Prokofiev, Schostakovic e Casella, Malipiero e Stravinskij, Petrassi, Britten e Dallapiccola avrebbe mai potuto attingere diretta ispirazione - e non come “semplice” citazione mahleriana, ma, addirittura, come stile di scrittura compositiva - se non dalle "bande da giro” che egli andava quasi settimanalmente ad ascoltare in Puglia?
Non certo di “trivialmusik” salottiera e tardoborghese si dovrebbe in tal caso parlare, ma di vera e propria musica popolare della nostalgia: nostalgia per un mondo di cui non si può che dare un’interpretazione sognante, nell’impossibilità/impotenza del rapporto col presente e con la musica colta sperimentale e delle neoavanguardie. Quella musica del nostro tempo che Rota, da vero antesignano del postmoderno, non riconosceva più come tale sottolineando in sua vece lo "svuotamento di qualsiasi funzione delle avanguardie e una revisione dei canoni della modernità" [18] che, come è noto, sta a rappresentare una delle più vistose conseguenze del complessivo aspetto della nuova situazione culturale postmoderna.
Come esempio massimo di questa sensucht popolare e pugliese della musica sta la marcetta della “bassa musica” che, improvvisamente, compare dal nulla e passa dinanzi agli occhi incantati di Gelsomina nella famosa sequenza del felliniano La strada considerata dai critici cinematografici (Aristarco, Varese, Colpi) e dagli esperti di musica per film (Miceli, Comuzio) come uno dei massimi esempi in cui «la musica di Rota diventa personaggio». Citiamo dunque dalla sceneggiatura:
Esterno strada nazionale. Giorno
Gelsomina cammina sulla strada che porta al paese. Poi si ferma, si guarda attorno indecisa, non sa che fare. Si siede sul ciglio della strada e raccoglie una bestiolina. La posa sul dorso della mano. La guarda affascinata poi la soffia via. Si stringe addosso il mantelluccio sempre più triste mentre una piccola banda di tre musicisti si avvicina lungo il campo che costeggia la via. Camminano l’uno dietro l’altro suonando un movimento allegro. Gelsomina li guarda stupita; attratta dalla improvvisa e festosa apparizione. Ha ormai dimenticato la propria malinconia e li segue ballando buffonescamente. Dissolvenza.
Rota attribuisce così in modo assai discreto ai tre dilettanti una naivite musicale per cui la citazione si sdoppia. Per intanto, il rimando alla formazione tipicamente pugliese della “bassa musica”: ottavino/flauto, bombardino, clarinetto (cassa-rullante ad libitum); e in secondo luogo, grazie ad un repentino, magistrale ed efficace cambio di strumentazione e di tonalità (dall’Allegretto molto vivace in do minore, si passa al Largo maestoso in sol minore che testimonia, ancora una volta di più, la capacità rotiana di metabolizzare persino il particolare sound delle bande da giro pugliesi ritratte sonoramente in qualche loro tic, come i ritardi del battere dei fiati “bassi”), ecco che quella marcetta si trasforma nella marcia pompier della sequenza immediatamente successiva (la Processione), con musica che ci è dato ascoltare, ancor oggi, eseguita da una qualsiasi delle bande pugliesi che operano durante le processioni patronali, immediatamente dietro la statua del santo protettore [19].
Ma il musicista non si limitò a testimoniare una radicata dipendenza dai frequentati modelli della banda popolare pugliese di cui molti esempi si possono rinvenire e opportunamente ascoltare, isolandoli, dalle sequenze di film felliniani come Le notti di Cabiria, 8/12, Amarcord, Giulietta degli spiriti e I Clowns.
Gli ampi squarci di musica popolare da lui inseriti nella colonna sonora del film II brigante (1961) di Renato Castellani, o meglio ancora un tema musicale presente in più sequenze di Rocco e i suoi fratelli di Visconti (1960), sono gesti significativi di quel radicamento pugliese che abbiamo cercato di sottolineare.
Vale la pena ricordare un ultimo caso, assai significativo, segnato dalla la ninna-nanna per il Santo Nicola protettore di Bari, che Rota aveva ascoltato da una fonte diretta offertagli da un suo docente, il maestro Biagio Grimaldi direttore del coro “La Polifonica Barese” il quale aveva per primo ritrascritto per coro a cinque voci dispari, un’ antica nenia di tradizione orale appresa dai fedeli del santo di Myra.
Nel film viscontiano quel canto pugliese viene con “puntigliosa puntualità” ricondotto a tutte le situazioni diegetiche in cui la famiglia meridionale di Rocco, originaria di Melfi e ora emigrata a Milano, si riunisce assieme, vindice il ricordo e la nostalgia per una condizione umana semplice, innocente, felice e tuttavia irrimediabilmente perduta.
Alla città della modernità, alla angoscia e alla alienazione di una condizione esistenziale estranea, la famiglia pugliese oppone il retaggio della campagna e del villaggio con i suoi suoni e le sue struggenti, semplici e antiche melopee: "Ninna nanna, ninna nanna vole /dirmisciamine tu, Sande Necole! / Sande Necole mi, ci va facenne, / puerte le piccininne addermiscenne! Sande Necole mi, miragheluse, jabbre le porte a ci le tene achiuse !" [20].
[1] Lettera di Domenico De Paoli, cit. in (a cura di) DINKO FABRIS, Nino Rota compositore del nostro tempo, Bari 1987, p. 95.
[2] Su Casella e la sua frenetica opera di organizzatore e musicista si rinvia alle pagine a lui dedicate, e ai preziosi riferimenti ivi contenuti, nel fondamentale volume di FIAMMA NICOLODI, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Firenze 1984. Per tutt’altra via si muove invece l’analisi di LUIGI PESTALOZZA in Introduzione a La Rassegna Musicale (antologia), Milano, 1966, specie le pp. LVII-LXVII in cui, pur riconoscendo che «Casella ha avuto un’influenza decisiva sulla nostra musica moderna fra le due guerre, e la sua opera è stata al centro d’ogni discussione critica di allora», si legge che «nel 1924 Casella aveva composto La giara, dove il folklore deformato e stilizzato alla maniera, si direbbe, pratelliana, aveva tradito la novella pirandelliana, poiché il linguaggio diretto all’evasione strapaesana l’aveva edulcorata popolarescamente, la aveva ridotta a demagogico nazionalismo». Per comprendere appieno il pensiero caselliano si leggano infine alcune pagine riferite al problema della musica folklorica contenute nel suo volume autobiografico 21+26, Roma 1930; mentre il più completo repertorio di scritti di Casella si trova in ANNA RITA COLAJANNI, FRANCESCA ROMANA CONTI, MILA DE SANTIS, Catalogo critico del fondo Alfredo Casella, Firenze 1992. Il neoclassicismo del nostro viene come auto-analizzato ne II neoclassicismo mio e altrui, in “Pegaso”, V, 1929, pp. 576-583. Infine, per lumeggiare i rapporti Rota-Casella è anche utile l’articolo di PIERFRANCO MOLITERNI, Un compositore negli anni del fascismo, in “Rinascita”, n. 41, 24 ottobre 1988.
[3] PIER MARCO DE SANTI, La musica di Nino Rota, Bari, 1983, p. 25; (a cura di) D. Fabris, op. cit., p. 16.
[4] L’educazione musicale di Rota si deve, indirettamente, al nonno materno Giovanni Rinaldi − definito in qualche dizionario come una specie di “Chopin italiano” − noto pianista, docente e compositore morto nel 1895, e alla sua ava Gioconda Anfossi anch’ella eccellente pianista. Una delle loro figlie, Ernestina, madre del compositore, intraprese per breve tempo la medesima carriera avviando quindi il figlio allo studio della musica. A Milano, la casa della famiglia Rota-Rinaldi era frequentata da Pizzetti e Casella, Castelnuovo Tedesco e Maurice Ravel, Stravinskij e Toscanini; cfr. PIER MARCO DE SANTI, op. cit., pp. 5-17, nonché LEONARDO PINZAUTI, A colloquio con Nino Rota, in “Nuova Rivista Musicale Italiana”, V, 1971. n. 1 (ristampata in Id., Musicisti d’oggi-venti colloqui, Torino, 1978) in cui Rota tra l’altro afferma «la mia famiglia, tutto l’ambiente in cui son vissuto, è stato sempre molto di avanguardia. Mio padre e mia madre erano musicisti e persone colte, e i loro gusti erano tali che fin da piccolo io ho avuto una specie di presunzione : cioè la sicurezza di non poter esser altro che moderno, e non per una scelta intellettuale, ma per natura».
[5] Queste notizie sono state da noi tratte da documenti inediti.
Fonte: relazione e curriculum vitae contenuti nella cartella personale del maestro Giovanni Rota − atti dell’archivio generale del conservatorio di musica statale “N. Piccinni” di Bari. Da qui risulta la sua iscrizione al P.N.F. il 29 ottobre 1932, Fascio di Combattimento-tessera n. 1236312; e i rapporti con la Gioventù Italiana del Littorio (Ludi Juveniles) nel 1940.
[6] Si legge in DINKO FABRIS, Op. cit., p. 19.
[7] La situazione della produzione e del consumo musicale a Bari è oggetto di alcune ricostruzioni storiche comprese nei volumi di PIERFRANCO MOLITERNI, ENZO PERSICHELLA e VITO ATTOLINI, Vissi d’arte. Gli ottant’anni del teatro Petruzzelli, Bari, 1983; FRANCESCO PICCA, Bari capitale a teatro, Bari 1987; (a cura di) PIERFRANCO MOLITERNI, Puglia. L’organizzazione musicale, Roma, 1989; PIERFRANCO MOLITERNI, La cittadella della musica, in (a cura di) FRANCO TATEO, Storia di Bari. L’Ottocento, Bari 1992; Id., Vita musicale a Bari nel secondo Ottocento, in (a cura di) MARCO RENZI e DINKO FABRIS, La musica a Bari, Bari 1992.
[8] Fonte: archivio generale del conservatorio musicala statale “N. Piccinni” di Bari: registro delle iscrizioni e dei docenti.
[9] Cfr. PIER MARCO DE SANTI, Op. cit., pp. 25-6.
[10] IGOR STRAVINSKIJ, Poetics of music, s.l. (trad. italiana, Poetica della musica, Milano, s.d.), p. 37.
[11] RICHARD TARUSKIN, Russian folk melodies in The Rite of Spring, in “Journal of thè American Musicological Society”, xxxiii (1980), pp. 501-543.
[12] «Son poche case e pochi marinai/ son cuori semplici, anime gentili. / Ma il mare e il piano dan beni infiniti / e specialmente i pesci più squisiti. / Poi v’è un tesor ch’ogni altro sopravanza / son pochi amici che si voglion bene. / Con essi sfumano tutte le pene, / vola in un lampo anche l’eternità. / Torre a mare, / oasi di felicità, / per ogni dove c’è fragor di guerra; / ma niuna forza, finché mondo è mondo, / potrà turbar la tua serenità».
[13] PIER MARCO DE SANTI, Op. cit., p. 17.
[14] Cfr. alcuni giudizi critici di Fedele D’Amico, Teodoro Celli e Lorenzo Arruga ripresi in PIER MARCO DE SANTI, Op. cit., pp. 142-3; 3-4; 137 e 177.
[15] FREDRIC JAMESON, Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, N.Y. 1984 (trad. italiana, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano 1989).
[16] Ivi, p. 10.
[17] REMO CESERANI, Raccontare il postmoderno, Torino 1977, pp. 79 e 87.
[18] Ivi, p. 82.
[19] SERGIO MICELI nel suo fondamentale Musica per film. Arte e artigianato, Firenze 1982 dà una descrizione e una trascrizione della scena della banda ne La strada alle pp. 269-71.
[20] Fonte: archivio privato della associazione musicale “Polifonica Barese”. BIAGIO GRIMALDI, Ninna-Nanna, Nenia popolare pugliese, trascritta per coro a 5 voci dispari con soprano solista.
------------------------------
Pubblicato sul tema: Bari, l'Auditorium 'Nino Rota' finalmente riapre: Alleluja!