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Battisti, dalla Puglia la proposta: 'Impunità per la verità'

Dalla Puglia, regione tra le più colpite negli "Anni di piombo", la proposta di Perruggini dopo il rimpatrio di Cesare Battisti: "Impunità in cambio di verità"

Potito Perruggini (Ascoli Satriano - Fg), nipote del brigadiere di polizia Giuseppe Ciotta, ucciso a Torino da un commando di Prima Linea la mattina del 12 marzo 1977, scrive a Giovanni Fasanella - giornalista, saggista e autore di lavori sulla politica italiana e sul caso Moro -  invitandolo pubblicamente a esprimere un’opinione sulla sua proposta di una commissione per “Verità e riconciliazione”, da lui rilanciata attraverso due interviste a Radio Capital e al Fatto Quotidiano, dopo la cattura di Cesare Battisti.

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"Caro Giovanni - scrive Purruggini - se addirittura dopo 40 anni non è stata detta tutta la verità sul caso Moro, potremmo mai arrivare a conoscere finalmente la verità storica del terrorismo in Italia prima che tutti i protagonisti ci lascino? Ti chiedo di condividere con me la richiesta di una Commissione per la Verità storica e la Riconciliazione Nazionale. Sono oltre 400 le Vittime del Terrorismo degli Anni di Piombo in Italia. Proviamo a fare qualcosa insieme. Ora o mai più! Non possiamo lasciare questo vuoto storico alle future generazioni".

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La risposta di Giovanni Fasanella:

Caro Potito, in questa fotografia riconoscerai sicuramente il luogo in cui tuo zio fu assassinato con alcuni colpi di pistola esplosi a bruciapelo, mentre stava mettendo in moto la sua auto per andare al lavoro. Per chi non ricorda: è via Gorizia, quartiere Santa Rita, Torino. Pensa, l’ho scattata proprio qualche settimana fa. Torno spesso sui luoghi della memoria. Mi aiuta a mantenere vivo il ricordo. E a riordinare le idee. La pubblico perché tu mi offri il pretesto, proprio ora che il caso Battisti ha riaperto vecchie ferite, non del tutto rimarginate perché nel nostro paese memoria e storia non vanno mai d’accordo. Sono due cose diverse, certo. Ma da noi, per qualche inconfessabile ragione, non si integrano, non si completano. Anzi, tendono a scindersi in modo schizofrenico, si separano generando conflitti che ci condannano a vivere con lo sguardo rivolto continuamente al passato: prigionieri di un’esperienza che non abbiamo saputo, non abbiamo potuto o non abbiamo voluto superare.

Prima di risponderti, lasciami dire ancora una cosa. A questa fotografia sono legati anche aspetti personali miei. Ma li sfiorerò appena, e solo perché sono strettamente intrecciati alla storia evocata dal caso Battisti e al problema che tu poni. La mattina del 12 marzo 1977 ci fu il mio drammatico impatto con gli anni di piombo. Il "battesimo" del fuoco e del sangue, se così si può dire. Abitavo a 300 metri dal luogo in cui Giuseppe fu assassinato sotto gli occhi di tua zia, che si era affacciata al balcone per un saluto, quasi presagendo qualcosa. Conoscevo Ciotta. Giovane cronista dell’Unità, lo avevo incontrato spesso nelle stanze dell’Ufficio politico della Questura. Sapevo del suo lavoro tra gli studenti del Politecnico e degli istituti Galileo Ferraris e Sommeiller.

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Ogni tanto mi era capitato di prendere un caffè con lui proprio nel bar davanti al quale fu ucciso, e dove a volte mi fermavo per la colazione prima di andare a prendere il tram numero 9, che mi portava fino al giornale. Rivedere Giuseppe poco dopo l’attentato, privo di vita e accasciato sul volante della sua Fiat 500, mi procurò un dolore immenso. Una rabbia furiosa. Che per fortuna, con il tempo, si trasformò in qualcosa di più utile e produttivo: in un impulso investigativo che avrebbe segnato tutta la mia vicenda professionale.

Toccò proprio a me, quel giorno di marzo, occuparmi per l’Unità del primo morto ammazzato a Torino. Il primo di una lunga serie. Dalle mie fonti in Questura e al Nucleo investigativo dei carabinieri capii che, fra le piste che stavano vagliando, attribuivano molta importanza ad una in particolare. Gli assassini forse erano fuggiti prendendo la strada per la Valle di Susa e poi quella per la Francia: era lì il santuario dei terroristi italiani. Non so se i killer di tuo zio - che poi vennero catturati, processati e condannati - si fossero davvero rifugiati in Francia. Ma posso dire con certezza che almeno su un punto i nostri apparati di contrasto avevano già allora le idee molto chiare. Sapevano dell’esistenza di una rete logistica che garantiva appoggi ai terroristi italiani. Conoscevano i ‘corridoi umanitari’ aperti verso il confine francese, oltrepassavano le Alpi piemontesi, liguri e valdostane seguendo vecchi sentieri della Resistenza, e poi proseguivano fino a Parigi. Dove i terroristi venivano accolti, nascosti, riforniti. E alcuni di loro rientravano in Italia per compiere nuovi attentati.

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Tutto questo accadeva già almeno una decina di anni prima della “dottrina Mitterrand”. La Francia, del resto, ha sempre avuto un occhio di riguardo nei confronti dei rivoluzionari di sinistra, dei terroristi neofascisti e, andando indietro nel tempo sino all’immediato secondo dopoguerra, dei movimenti secessionisti o autonomisti del nostro Paese. Le nostre autorità lo sapevano. Lo avevano sempre saputo. Eppure, quando chiedevo perché le indagini non portavano a nulla di concreto o perché non se ne parlasse pubblicamente, le mie fonti allargavano le braccia e scuotevano la testa, confessando un senso di frustrazione e di impotenza.

Parigi e tutto ciò che ruotava intorno al Partito armato e ai suoi legami con la capitale francese (e anche con quella britannica, scoprii in seguito) era un tabù inviolabile. Per entrambe le parti: né la Francia aveva intenzione di aiutarci a debellare il terrorismo, né l’Italia ardeva dal desiderio di porre i francesi di fronte alle loro responsabilità. Fu così che le ricerche sull’influenza straniera sull’eversione italiana diventarono un mio chiodo fisso. Sin dalla mattina dell’assassinio di tuo zio, caro Potito.

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L’investigazione sulla cosiddetta “area della contiguità”, cioè la rete protettiva costruita intorno all’eversione, ha occupato gran parte della mia attività giornalistica. Mi è costato molto, da ogni punto di vista. Perché qualsiasi tasto toccassi, avevo sempre la sensazione, e a volte anche molto più di una sensazione, di urtare la suscettibilità di interessi, ambienti, salotti, cordate di amicizie... Che ricambiavano, quasi mai con gentilezza: non volevano che se ne parlasse! Ma non mi sono mai fermato, nonostante tutto. Anzi: più violente erano le reazioni, più rabbiose erano le insolenze da sopportare e più si rafforzava la mia convinzione di essere nel giusto.

Oggi, la realtà negata pubblicamente per decenni, benchè fosse già fotografata nelle carte riservate della nostra intelligence almeno dal 1977, il caso Battisti la sta sbattendo sotto gli occhi del mondo intero. Inutile girarci intorno, il nodo è quello: l’area della contiguità. L’immensa zona grigia dell’eversione di sinistra e di destra in cui le “genuine” pulsioni rivoluzionarie (anche i neofascisti, a loro modo, volevano fare la rivoluzione) finirono inevitabilmente per confondersi con interessi esterni. Esterni alle organizzazioni terroristiche e ai movimenti politici. E fuori anche dal nostro Paese. Caro Potito, è lì, in quel groviglio di relazioni spurie e pericolose, la chiave per decifrare l’intera stagione degli anni di piombo, culminata con l’assassinio di Aldo Moro. Ma si ha davvero voglia di aprire quella porta?

Magistratura e commissioni parlamentari d’inchiesta non hanno potuto, saputo o voluto fare sino in fondo il loro mestiere. Troppe implicazioni. Troppe complicazioni. Quella che si legge negli atti giudiziari e parlamentari è una verità incompleta, insoddisfacente e talvolta persino offensiva nei confronti delle vittime, dei loro familiari e dell’intera opinione pubblica. Eppure, gli scaffali delle librerie sono pieni di volumi fotocopie di sentenze claudicanti, ma spacciati per verità storiche definitive.

E allora, non sapremo mai com’è andata? No, nonostante tutto, ne sappiamo già molto più di prima. Conosciamo le motivazioni soggettive del terrorismo, il suo brodo di coltura sociale e politico-culturale, i contesti interni e internazionali in cui agì. E’ molto, non siamo all’anno zero. Ma non è tutto, certo. Che cosa non sappiamo con certezza? Molti delitti non hanno ancora oggi dei colpevoli. Di molti attentati non sono stati ancora identificati tutti i responsabili e non ne sono noti i moventi. Si intravedono le dinamiche dei rapporti tra le varie componenti del Partito armato, e tra il Partito armato e ambienti istituzionali del nostro e di altri paesi, ma si continua testardamente a negarle, tacciando di complottismo chiunque provi ad avvicinarsi alla soglia oltre la quale c’è, appunto, l’area grigia della contiguità: delle protezioni di vario genere e a vari livelli.

E’ possibile oggi scardinare quel muro omertoso, eretto intorno agli anni di piombo talvolta anche a dispetto delle evidenze documentali? Può funzionare una commissione per la riconciliazione basata su un patto stipulato alla luce del sole: verità in cambio di impunità, come nel Sud Africa di Nelson Mandela dopo l’apartheid, o nel Ruanda dopo il milione di morti della guerra civile? Ne parlò per la prima volta Giovanni Pellegrino nel 2000, riprendendo un concetto di Giovanni Moro, il figlio di Aldo: "Se non si può avere giustizia, ci sia almeno verità". Era una buona idea, ma non ebbe un’accoglienza calorosa. La politica fece finta di nulla. L’intellighenzia e l’informazione nascosero la testa sotto la sabbia. Ambienti istituzionali “armarono” la mano di “studiosi” "anticomplottisti” e dei crociati del “non c’è più niente da sapere”. E la proposta cadde nel vuoto, nella speranza probabilmente che la ferita più profonda del nostro secondo dopoguerra si sanasse da sola, come per magia, magari con l’aiuto del tempo e dell’oblio.

C’è stato di recente un tentativo in qualche modo ispirato alla proposta “sudafricana”. Quello di un gruppo di criminologi milanesi, sostenuti dai gesuiti. Ma è stato gestito esclusivamente in un’ottica di giustizia riparativa, relegato tra le mura di un convento in una dimensione intima del rapporto vittime-carnefici. E, date le premesse, quell’esperienza non solo si è rivelata del tutto inutile per il Paese, ma anche per molte delle stesse vittime che vi hanno partecipato.

Sono scettico, caro Potito. Eppure aderisco alla tua proposta. Vale comunque la pena di riprovarci. Perché nel frattempo, nonostante tutto, qualcosa è cambiato. L’epilogo del caso Battisti ne è una prova. Sono diverse decine gli ex terroristi di sinistra e di destra che hanno trovato rifugio e protezioni all’estero. Voglio prendere per buono l’annuncio che il governo farà di tutto per riaverli. Si tratta di personaggi non di secondo piano, che sanno molte cose, potrebbero parlare e aggiungere tanti tasselli mancanti nel puzzle degli anni di piombo e del caso Moro.

Non mi scandalizzerei se lo Stato (quello di oggi, non lo Stato di ieri), dopo averli riportati a casa, offrisse loro un patto alla luce del sole: verità in cambio di impunità. Qualcuno potrebbe storcere il naso, lo so. Ma un “patto sudafricano” è pur sempre preferibile allo scambio osceno (impunità in cambio del silenzio) con il quale, morto Moro, ci si è illusi di voltare pagina. Riproviamoci, caro Potito. E poi, finalmente, a tanti decenni di distanza la materia potrebbe essere trasferita dalle competenze della magistratura e dei giornalisti nelle mani degli storici. Ma gli storici di nuova generazione: più onesti, perché privi di ogni tipo di legame con un passato che l’Italia deve lasciarsi alle spalle.