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Benedetto XVI, il filosofo che sfilò la ragione agli Illuministi
papa Ratzinger

C’è un bassorilievo sull’Ambone della Cattedrale di Troia (Fg), che a lungo ha costituito un forte legame del cardinale Joseph Ratzinger, prima, e del papa Benedetto XVI, poi, con la Puglia, già prima delle sue ripetute visite pastorali, per stimolare e favorire il dialogo interreligioso dalla regione ponte mediterraneo verso l’Oriente.

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Il bassorilievo, scolpito intorno al 1168, raffigura un’allegoria della teologia - di ispirazione basiliana - che è una vera e propria laus theologiae, una esaltazione della teologia: nella Chiesa e per la Chiesa.

Il bassorilievo mostra tre animali che l’artista ha disegnato come un riflesso delle condizioni della Chiesa ai suoi tempi. C’è un agnello che è attaccato da un leone feroce. Questi ha afferrato l’agnello tra i suoi denti, e ne ha già divorato una parte del suo fianco. Nonostante ciò, vediamo che l’agnello è ancora vivo, ma è straziato e sopraffatto dalla potenza del leone e non può combattere, immobilizzato da una paura che lo lascia senza difese.

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“E’ chiaro - affermava l’allora Prefetto della Congregazione per la Fede - che questo agnello rappresenta la Chiesa, o meglio, la fede nella Chiesa. Nel contempo la scultura ci rappresenta una visione molto pessimista: la Chiesa autentica, la Chiesa della fede sembra quasi dover essere divorata dal leone del potere, che tiene il suo prigioniero tra le sue mascelle. Ma la scultura lascia trasparire anche una sorta di speranza”.

“C’è un terzo animale, il cane da pastore. Il cane non è potente quanto il leone, ma è accorso alla riscossa ed è entrato con decisione nel conflitto. Può darsi che il cane sarà la prossima vittima del leone, ma il leone sarà costretto ad abbandonare la presa sull’agnello”. (Nell’articolo correlato, la presentazione del bassorilievo e la lettura analitica e sorprendentemente autocritica dell’allora cardinale Ratzinger).

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La forza espressiva di questo bassorilievo deve essere tornata alla mente più volte, ripresentandosi agli occhi del presule in tutta la sua enigmatica drammaticità – in diverse successive occasioni - quale sintesi impressionante dello stato d’animo di un mortificato Benedetto XVI, in un periodo difficile del suo pontificato: amareggiato dalle divisioni della Curia romana, nonché dalla disinvoltura di critiche approssimate e precipitose, che da quei corridoi non avevano esitato ad investire lo stesso trono del successore di Pietro.

“Purtroppo ancora oggi nella Chiesa c’è il mordersi e il divorarsi a vicenda, come espressione di una libertà male intesa”, ammoniva il Papa con le parole di Paolo, in preda allo sconforto, in una dura lettera ai vescovi. Lettera definita, allora: “Triste, ma necessaria”, dal cardinale Cosmo Francesco Ruppi.

Un’iniziativa senza dubbio inusuale, motivata dalla leggerezza della Pontificia commissione “Ecclesia Dei”, in occasione della gestione del “gesto di misericordia” papale verso la comunità lefebvriana (la remissione della scomunica a quattro Vescovi, consacrati nel 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede). Nonché conseguente alla sorpresa, per il Pontefice mortificato e amareggiato, di fedeli e tonache di Curia, che “hanno pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco”.

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In quell’occasione, il Papa verosimilmente si identificò nella sua Chiesa (l’Agnello attaccato dal leone feroce, che lo tiene tra i suoi denti e ne ha già divorato una parte del fianco), sentendosi vittima indifesa, certo in balìa di una vicenda strumentalmente gonfiata. E con uno scatto intellettuale degno del raffinato teologo, più che del pragmatico sovrano, riprese allora il rudimentale scettro del pastore e incitò il cane della fedeltà, della solidarietà e del coraggio, nell’impavida azione di salvataggio.

In un sol colpo, attraverso la lettera, quel cane moltiplicò la poliedricità dei suoi riflessi. Dando a Benedetto XVI la possibilità di ringraziare gli amici ebrei, in particolare il Rabbinato di Gerusalemme, per non aver cavalcato il malinteso ed averlo anzi “aiutato a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia”. E gli fece cogliere, poi, l’opportunità del momento difficile, per promuovere un’innovata attenzione verso la moderna declinazione della “rete” di antichi pescatori e delle sue sofisticate trame d’informazione, gettate nel mare del web, per modernizzare ulteriormente gli approcci di una Chiesa con lo sguardo rivolto al futuro.

L’intero insieme del bassorilievo troiano diventò, in quel frangente, specchio di una ciclicità senza tempo. In quell’occasione, fu chiaro a tutti che la teologia lasciava il campo alle vicende della quotidianità. E l’arrivo della fibra ottica, tra il fumo delle candele e le note dei salmi, disse che i tempi erano maturi per tornare alla verace trasparenza - perduta nella polvere dei secoli - di vecchi uomini di mare con le rughe segnate dal sale. Uomini semplici, chiamati un giorno a cambiare il mondo, da un Maestro che li esortò a rimanere pescatori e, coltivando la fede, diventare audaci pescatori di anime.

Dopo il passaggio critico del celebre discorso di Ratisbona, tutto centrato sulla complementarietà tra Fede e Ragione, le due ali necessarie allo Spirito per potersi elevare alla contemplazione della Verità, e l’assalto subito, poco tempo dopo, a causa del suo viaggio in Turchia, dove fu praticamente snobbato dal presidente Erdogan, ma accolto come un Papà dalla comunità dei fedeli non solo cristiana, quel filo che legava il teologo tedesco al bassorilievo troiano tornò a tendersi.

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Poco più di un anno dopo, quasi come se l’assedio non volesse “demordere”, il professore diventato Papa si vide letteralmente sbattere in faccia porta e cancello dell’Università “La Sapienza” a Roma, dove era stato invitato per inaugurare l’Anno Accademico nel 2008.

“Un evento ‘incongruo’ e non in linea con la laicità della scienza”, dissero gli accademici romani, accampando a pretesto l’appoggio dato da Joseph Ratzinger - circa 20 anni prima, in un discorso nella citta di Parma - a un’affermazione di Paul Feyerabend, filosofo e sociologo austriaco: “All’epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto”.

In verità, si presentava l’occasione finalmente per fargliela pagare. Galileo non c’entrava affatto. La vera colpa, se di colpa si poteva parlare, del professor Joseph Ratzinger, salito al soglio pontificio col nome di Benedetto XVI, era quella di voler sfilare “la ragione” ai laici illuministi, per farne pietra angolare a sostegno della fede.

Una raffinata e certosina azione, del filosofo con la casula, ai fianchi del pensiero liberale, per fagocitarne il simbolo più intangibile e metterlo laicamente al servizio del credo religioso in senso lato. Evitando che gli eccessi di fede, senza il sostegno della ragione, potessero prendere la deriva integralista.

Accecati da una rabbia impotente, di fronte alla disarmante azione del teologo tedesco, i sacerdoti laici della Sapienza peccarono di eccesso di razionalità. Smarrito il lume della ragione, si persero nella confusione scientifica di calcoli e formule, riversati sulle lavagne scorrevoli delle loro aule. E, dimenticando il cosiddetto giuramento di Voltaire, dettero vita all’invenzione del pasticcio più grande del secolo.

Ezio Mauro parlò di cortocircuito: “Dove il gesto ha prevalso sul pensiero e la laicità si è ridotta ad una cupa caricatura di sé stessa. Preoccupandosi di limitare e restringere il perimetro dell’espressione invece di ampliarlo, garantendolo per tutti”. Ma qualcosa si inceppò. Il Papa, defilandosi, lasciò tutti di fronte alle proprie responsabilità, di fronte alle proprie ragioni, che erano e restano cosa ben diversa dal rivendicato “primato della Ragione”.

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Col passo falso della Sapienza, la “casta” dei tocchi e degli ermellini universitari italiani decise - con manifesta o celata consapevolezza - di auto-svalutarsi, di riconoscersi più nelle lauree honoris causa, sovente destinate a campioni dello sport o a volti noti della TV, anziché difendere col valore del coraggio e della forza intellettuale la sacralità della Palestra del confronto del pensiero.

L’elenco delle vicende che in qualche modo riguardano l’intrigante e affascinante bassorilievo, infine, rivela che esso era già ben presente anche nella certosina regia dei primi e significativi gesti dell’appena eletto Benedetto XVI al soglio petrino.

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Il “Pallio” è una stola di lana bianca, lungo 2 metri e largo 6 centimetri, su cui sono applicate croci di seta, nera per gli arcivescovi e rossa per il Papa, ed è ornato di frange alle estremità. Ha un doppio valore simbolico: rappresenta il Buon Pastore, che porta la pecorella sulle spalle, ma anche lo stesso agnello immolato: il Crocifisso, le cui piaghe si identificano con le croci ricamate (cfr. “Episcopius Troianus”, Gelsorosso Ed. – 2012).

Insieme all’Anello del Pescatore e all’imposizione del Triregno (Tiara), quest’ultimo ormai in disuso, rappresenta uno dei segni evidenti, esclusivi ed emblematici della sovranità pontificia pro-tempore. Peso reale: minimo, ma nell’identificazione dell’Agnello con la Chiesa, il fardello sulle spalle di Sua Santità assume un carico specifico alquanto rilevante.

Resta significativo e presago di un Calvario responsabile e impervio, il fatto che Benedetto XVI abbia voluto deporre il suo pallio, proprio quello ricevuto in occasione della proclamazione al Sommo Soglio, come una sorta di ex-voto, sulla teca con le spoglie di Papa Celestino V a L’Aquila, solo pochi giorno dopo la sua elezione.

Quasi come a voler chiedere - già allora - forza, conforto e ispirazione, indispensabili per la sua impegnativa missione, al protagonista del celeberrimo “gran rifiuto” di dantesca memoria. La lettura del gesto riporta alla mente un Benedetto XVI rapito dall’enigmatica drammaticità del bassorilievo dell’ambone della Cattedrale di Troia: che incrocia l’affidamento simbolico dell’Agnello alle grazie del Santo da Morrone, lo stesso capace di dichiarare umilmente i propri limiti e di preferire il ritrovarsi nell’eremo, allo smarrimento incalzante di un pontificato nella bufera.

E così, ancora una volta, lo scatto intellettuale degno del raffinato teologo, prevalse sulla pragmatica prudenza del sovrano: Benedetto XVI decise, con la sua apparente improvvisa “rinuncia”, di lasciare i panni dell’Agnello al suo successore, per ri-assumere quelli della fedeltà del cane-bianco e moltiplicarne la poliedricità dei riflessi di solidarietà e di coraggio nell’impavida azione di salvataggio.

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Rimettendo il mandato nelle mani della Chiesa, Ratzinger decise di chiudere il cerchio aperto col primo messaggio “ai Signori Cardinali”: tornando alla sua vigna, dopo l’esperienza in quella del Signore. Una vigna rivelatasi troppo grande per un uomo solo, che avrebbe avuto tanto bisogno di “collegialità”, e invece dal primo momento dovette confrontarsi con quel “mordersi e divorarsi a vicenda, come espressione di una libertà male intesa”.

La profezia di Carlo Maria Martini si compiva: “Una personalità destinata a stupirci e che ci riserverà molte sorprese, rispetto agli stereotipi con cui è stato definito un po’ troppo sbrigativamente. Un pastore destinato ad aprire strade inconsuete”.

Il suo rapporto con la fede è rimasto sempre intimamente essenziale e profondamente identitario. Coerente con i suoi Maestri, rappresentante di Pietro (poi “emerito”) e fedele all’insegnamento di Paolo, ha continuato a tenere a bada le tendenze a considerare la teologia come una sorta di “magistero dottrinale”. Sic transit gloria mundi!

(gelormini@gmail.com)

Tratto da "Pentateuco Troiano" e da "VIS a VIS" - Edizioni Radici Future

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Pubblicato in precedenza: Il peso del pallio

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