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Bitonto serata con EPISCOPIVS TROIANVS. La lettura introspettiva di L. Maruzzi
Alla Libreria del Teatro - Salotto Letterario di Bitonto 'EPISCPIVS TROIANVS' di Antonio V. Gelormini con Valentino Losito, Giovanni Procacci e Nicola Pice
Parlare di Vescovi, Papi, Santi ed Episcopi con tre Cardinali laici e due eccellenze del palato pugliese, presentando "EPISCOPIVS TROIANVS - Il taccuino di Troia" di Antonio V. Gelormini - Ed. Gelsorosso. Venerdì 3 marzo nel salotto lettarario di Bitonto alla Libreria del Teatro. (ag)
Un libro ricco di suggestioni, un libro ‘artistico’: il racconto romanzato, reso efficace grazie al pretesto narrativo di Kaspar Jr. Van Wittel (discendente dei Vanvitelli), con immagini ben disposte, testo impeccabile e ottima struttura del saggio, da capo a fine.
Arte e sentimento: suggestione e commozione (pag. 19), vertigine da bellezza (pag. 32), estasi contagiosa (pag. 56). Arte e mistero: morte di Pietro Frasa a 33 anni nel 1711 (pag. 19). Arte in Puglia: l'elogio degli artisti pugliesi (Lidia Croce a pag. 8; Leon Marino a pag. 69), il Papa originario di Gravina di Puglia (pag. 28), l'aspetto gastronomico (pag. 10 e pag 36). Fino a prevedere unvero e proprio Manifesto programmatico per l’Arte: Pinacoteca e Biblioteca (pag. 65).
Due espressioni inserite dall'autore, quasi in sordina, aiutano a capire le circostanze che mi hanno permesso di conoscere Antonio (e aggiungo l'altro amico: Giovanni Aquilino) fino a sollecitare il mio intervento all'incontro odierno. Mi riferisco al termine "mecenate" (che compare a pag. 23 e 65) e alla denominazione "fondazioni di origine bancaria" (a chiusura di pag. 42).
Oltre ad essere un appassionato di arte, sono dipendente di Fondazione Cariplo, e mi occupo di gestire le erogazioni dell’ente, una volta che il Consiglio abbia assunto le sue decisioni in merito ai progetti più meritevoli. Pochi sono coloro che conoscono quale sia stata la vera occasione, che mi ha costretto ad occuparmi del Progetto Distretto Culturale - DAUNIA VETUS.
Un’occasione preziosa, impagabile, che mi ha permesso di riconciliarmi con un territorio, di cui avevo reciso ogni legame con la mia nuova vita di neo-lombardo.
Non saprei dire se Antonio sapesse quali ricordi ed emozioni avrebbe potuto suscitare la lettura di questo suo taccuino. Un libro che in fondo appartiene anche al sottoscritto: più lo leggo e più sento che è proprio così.
Debbo anzi ringraziare Antonio per aver fermato il tempo su fotogrammi che narrano episodi decisivi del mio percorso di vita: il primo approccio al "religioso", il sodalizio con alcuni esponenti del clero, il mio rapporto con le istituzioni che preparano i futuri sacerdoti.
Sono numerose le pagine che potrei invocare a dimostrazione di questa corrispondenza: ad esempio quando parla di trascorsi infantili da chierichetto (pag. 34), seminaristi (pag. 37), turibolo, ampolline e piviale (pag. 38). dormire nel seminario di Troia (pag. 62).
Il libro è un omaggio prima di tutto alla bellezza, quella che è tuttora presente malgrado la nostra disattenzione: le pietre, le statue, le pergamene e l'universalità degli altri beni inestimabili cui siamo soliti dare una casa chiamata “museo”.
È anche un omaggio alla classe clericale più avveduta, un gesto che Antonio compie, sicuro di interpretare fedelmente i sentimenti di Santino (suo padre) che avrebbe voluto farlo per primo.
Come facciamo ad ignorare la possibilità di leggere in chiave autobiografica l'episodio riportato a pagina 52? Dove si parla di un ragazzo che gioca a pallone nel cortile dell'episcopio, e che ad un tratto viene rimproverato per aver disturbato la siesta pomeridiana del vescovo.
Kaspar Van Vittel jr. arriva a Troia, e spera di trovare un cicerone (pag. 33), ma l'autore ci invita ad aprire gli occhi perché è lui stesso che si mette a nostra disposizione per farci da guida lungo le strade di questa meravigliosa cittadina. E qui mi viene un pensiero: come non collegare il figlio - che ci ‘conduce’ fra itinerari storico-artistici - con il padre ‘autista?
Nessuno più di Antonio avrebbe potuto scrivere di quei luoghi parole che travalicano il semplice omaggio. Non vi è sentimento di riconoscenza che possa spiegare in modo convincente questa sorta di dedizione o (vogliamo dirlo?) di religioso attaccamento.
La porta socchiusa in fondo al corridoio, la teoria di stanze (adiacenti attigue e comunicanti tra di loro), Antonio le conosce bene, è vero. Ma non è questa la chiave di interpretazione del libro che invece ci viene svelata a chiare lettere a pag. 50 dove leggiamo: "Di certo la banalità non era di casa tra quelle mura".
Arriva il secondo collegamento, in particolare con quanto troviamo a pagina 23: è in questo punto che si parla espressamente di "scritti utili alla crescita culturale" e di "classe dirigente all'altezza del compito".
Mi viene il dubbio che l’autore voglia dirci qualcosa di più rispetto alla semplice notizia storiografica. Del resto, già prima di questo capitolo il lettore intuisce che Antonio sta trattando di cose che considera piuttosto importanti, verso le quali sin da bambino (sospetto io) manifesta un forte anelito.
Insomma, l’amore per la cultura, il suo magnetismo, è cio che spinge Antonio a cimentarsi con la sfida di sdoganare un certo Sapere, oggi appannaggio di una ristretta cerchia di studiosi e persone privilegiate.
Amore per la cultura, dicevamo. C'è però un fremito che scuote tutto il libro: qua e là sono disseminati sintomi di un'evidente vena nostalgica per un mondo di relazioni e protagonisti superlativi (che tuttavia possiamo dichiarare scomparso): gli antichi palazzi gentilizi ed un consorzio umano distinguibile in patrizi e plebei (pagina 32). Perfino l'abbondante utilizzo di canoni descrittivi come "maestà", "regalità", "magnificenza" e "sfarzosità", sono gli elementi che portano a questa conclusione.
Se poi dovesse residuare ancora un ultimo dubbio, basterebbe a dissiparlo del tutto quanto scrive Antonio a pagina 50: "Segno che la maggior parte dei mobili e degli arredi erano stati spostati o utilizzati in altri ambienti, ma soprattutto che quel palazzo da tempo non era più abitato o frequentato". Possibile che in queste frasi non avvertiate anche voi il profondo rammarico che l’Autore prova per la fine di un'epoca che considera ‘aurea’, e pertanto irripetibile?
Ad evitare incomprensioni, va comunque precisato che Antonio sa benissimo come affrontare la contraddizione: dopo aver fatto i conti con il passato, come dice a pagina 69, dovrà richiudere il portoncino dietro di sé "anche se con un pizzico di malinconia".
Cosa serve per valorizzare il patrimonio culturale oggi? Di fronte alla prospettiva di un feroce attacco a tutto ciò che sa di cultura umanistica, basterebbe imitare don Donato De Colellis, come ci racconta l’autore a pagina 24: dai rifiuti riuscì a far riemergere un tesoro, salvando i tre Exultet dal sequestro borbonico.
Si tratta di un gesto estremo, che però ci fa capire quanta cura dovremmo riservare ai beni che testimoniano le nostre radici identitarie, cercando di riunire gli sforzi di tutti, ripartendo da una nuova consapevolezza circa la loro natura di "beni comuni" che - senza confidare in una protezione istituzionalizzata - soltanto la comunità saprà custodire con la gelosia di una società progredita, cioè aperta e generosa.
Poi ci sarà posto anche per il mecenate (chiunque esso sia); altrimenti, come ricorda Gelormini a pagina 45: chi comprerebbe le targhe in plexiglass?
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Pubblicato in precedenza: EPISCOPIVS TROIANVS, l'opera prima di A. Gelormini