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Card. Zuppi, amare la Costituzione con fede laica e fervore patriottico
MEIC e UCSI Puglia, confronto sulla lettera alla Costituzione Italiana del Card. Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo di Bologna
La lettera alla Costituzione del Card. Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo di Bologna, è stata al centro dell’incontro organizzato dal Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (MEIC) Puglia, in collaborazione con Unione Cattolica Stampa Italiana pugliese. Incontro che mi ha visto partecipe (quale componente del direttivo UCSI Puglia, presieduto da Anna Maria Sgobba), insieme a Antonio Lia - Presidente MEIC Puglia, Gaetano Dammacco - Uniba, Domenico Delle Foglie - già Direttore SIR, Pino Pisicchio - Università Internazionale Roma, Raffaele Rodio - Costituzionalista e lo stesso Card. Zupppi.
La lettera ha raccolto consensi unanimi in Italia e certamente non poteva passare inosservata a chi come me ha avuto la fortuna di formarsi, oserei dire al culto della Costituzione, alla corte didattica di Enrico Dalfino: docente appassionato e cantore della Carta, nonché il Sindaco di Bari, che la mattina dell’8 agosto 1991 si trovò a fronteggiare l’arrivo della Vlora con circa 20.000 disperati.
Una lettera dalla funzione potremmo dire ‘didattica’, che mi ha colpito per due ragioni molto particolari. La prima, per essere la testimonianza di un gesto d’amore, che come tale si estrinseca nella riflessione meditata, curata, articolata ed emozionante delle sue esortazioni: la lettera è mezzo di comunicazione alquanto desueto da qualche tempo, in una società inflazionata dalle ‘apparenze mediatiche’ e annebbiata dal relativismo demagogico. La seconda, per la valorizzazione ‘metaforica’ riservata a quella che è intesa come la Legge delle leggi ovvero la Madre di tutte le leggi.
Una sorta di omaggio e recupero di antiche radici - quelle dei nostri “Fratelli maggiori” - che hanno “la Legge” nel loro Tabernacolo, fatti attraverso l’esercizio e il ricorso alla Parola. In pratica, la sorprendente implorazione verso uno strumento laico, la Carta Costituzionale, da parte di un ministro di Fede.
Capite perfettamente, avendo scritto “Pentateuco Troiano”, quanto e come potesse rivelarsi ‘intrigante’ una tale occasione di confronto. Per questo, rinnovo la gratitudine a S. E. per aver innescato un vero e proprio processo virtuoso con la sua “insolita” iniziativa.
Leggendo i diversi passaggi di questa lettera appassionata, si sono moltiplicati i parallelismi con un’altra testimonianza - con la quale ho il piacere di relazionarmi sin dall’infanzia - e che sono certo sorprenderà piacevolmente anche l’Arcivescovo di Bologna, che invito sin d’ora per una visita - se non se ne fosse già presentata occasione - e vivere ‘de visu’ l’esperienza della meraviglia, nell’emozione della contemplazione: il Rosone della Cattedrale di Troia in Capitanata. Invito ovviamente esteso a tutti i convenuti, appena le restrizioni lo consentiranno, magari per rendere grazie - per la fine dell’incubo Covid - ed accingerci con rinnovato entusiasmo ad un nuovo inizio.
Un nuovo inizio annunciava la Costituzione Italiana, dopo la tragedia devastante e divisiva del conflitto bellico, un nuovo inizio segnava questo Rosone: esempio d’artigianalità moresca, ispirato a dettami dell’Antico Testamento - quindi di radice ebraica - incastonato nella facciata romanico-gotica di una chiesa cristiana (presumibilmente nel 1266, quando con la morte di Manfredi a Benevento, si chiude un ciclo per la storia del Sud).
Lo annunciava ai pellegrini - rapiti in ammirazione - in sosta lungo la via Francigena, verso Gerusalemme, ma anche alle generazioni future: chiudendo l’epoca normanno-sveva e aprendosi all’arrivo degli angioini. Archiviando il romanico e rilanciando lo stile gotico, che favoriva l’invasione di luce naturale nelle penombre, fino ad allora affumicate, delle liturgie tradizionali.
Così come una nuova luce era quella che, in qualche modo, i Padri Costituenti vollero attraversasse la Costituzione e che l’Arcivescovo, nel suo testo, richiama nell’amore di Dio: luce che si manifesta nella cura del prossimo ed “insegna ad amare ogni persona, perché ognuno è importante”.
Essi vollero sancire dei principi, che potessero regolare e guidare la vita di una comunità - o Nazione - comunicandoli in modo chiaro, fermo e lungimirante: si direbbe scolpendoli nella pietra, per resistere nel tempo, con la leggerezza tipica dello “spirito vivace” che ne anima riflessi ed effetti.
Dodici gli articoli-princìpi posti alla base del proclama costituzionale e destinati a regolare la vita della nuova Repubblica Italiana. Undici, di cui uno doppio, i petali del Rosone che, nella sua tradizionale funzione cronocratica, così come nella testimonianza ‘ecumenica’ dei suoi sincretismi, trasmette il medesimo messaggio: “La ricchezza è nella diversità”. Preoccupandosi persino di sottolineare la forza dell’equilibrio delle forze o poteri contrapposti, nell’asimmetria armonica che regola e attraversa la sua composizione architettonica.
Un equilibrio dinamico e non statico, comune ad entrambi, dato dalla disparità e dalla diversità: vera ricchezza dell’unità ritrovata e rappresentata. Per cui, l’intento comune di indicare non l’univocità di un indirizzo fondamentale, quanto e piuttosto la pluralità di un equilibrio fondamentale.
Una “nuova” fonte luminosa e al contempo occhio vigile, che Piero Calamandrei auspicò affetto da virtuosa presbiopia, allorquando parlò di “Costituzione presbite”, mentre Aldo Bozzi, riferendosi in particolare ai princìpi riassunti nel preambolo, li definì “un ponte verso il futuro”.
Un ricamo istituzionale, per una rivoluzione da attuare nei perimetri della legge (rif. Codacci Pisanelli), il cui ordito sarà composto dal contrappunto tra laicità e diritti della persona, su una trama resistente tessuta dagli arabeschi magistrali prodotti pazientemente dalla nobiltà laboriosa del compromesso. Nella sua accezione più alta dell’accordo reciproco e della reciproca responsabilità/promessa della sua tenuta (cum promissus).
Aldo Moro, Alcide De Gasperi, Lelio Basso e Umberto Terracini furono tra i più alacri e ‘silenziosi’ tessitori di questo capolavoro di modernità, che teneva insieme “la rivoluzione mancata e la rivoluzione promessa” (ancora Calamandrei), che accelerava sul fronte della industrializzazione e del riscatto della forza lavoro (La Malfa e Parri), ma nel contempo frenava prudentemente sugli eccessi di poteri della stessa Costituente, per evitare una deriva “giacobina” delle nascenti istituzioni (De Gasperi).
“Ed anche perché - come ebbe a spiegare Pietro Scoppola qualche anno fa - era essenziale che il lavoro della Costituente non si svolgesse nel vuoto di ogni altra autorità, ma si inserisse al contrario in un tessuto complesso di poteri, per realizzare quella ‘balance des pouvoirs’ che costituiva il cardine del costituzionalismo di tradizione liberale”.
Sforzi e contributi plurali e diversi per realizzare l’innovazione di una Costituzione popolare e partecipata - voluta dal popolo - e non di una Costituzione concessa (si disse allora: octroyée). E su questa scia ogni passaggio nei commi dei princìpi fondamentali è un cesello di letteratura legislativa.
A partire dal lavoro - sul quale il dibattito raggiunse vette altissime, prima di planare nella sintesi che tutti conosciamo - non inteso come “astrazione collettiva”, quanto come “valore costituzionale essenziale”. Il “fondamento” sulla dignità del lavoro - nel magnifico intreccio tra art. 1 e art. 4 della Costituzione - indica il valore che la Repubblica attribuisce all’apporto operoso di ciascuno (secondo le proprie capacità, e le proprie scelte), al posto di altri fattori che in passato erano stati determinanti, come la nobiltà di nascita o di ricchezza, per valorizzare il ruolo sociale dell’individuo.
E che dire dell’art. 3 che vide - tra gli altri - una spigliata Nilde Iotti battersi con caparbietà per il principio d’uguaglianza, a partire dal nucleo base della famiglia, per creare le premesse alle successive garanzie degli artt. 29 - 30 e 31. Ne sentiamo ancora la voce squillante: “E’ indispensabile che la Repubblica Italiana affermi nella Costituzione il principio di rafforzare la famiglia”.
O dell’ostinata “proposta di collaborazione nella diversità” perseguita laicamente dal democristiano Alcide De Gasperi, che trova una delle massime testimonianze nello sforzo di regolamentare i difficili rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, risolto con l’approvazione dell’art. 7 anche con l’inatteso sostegno di Palmiro Togliatti e del Partito Comunista Italiano, e poi perfezionato con i richiami dell’art. 8.
E di come la Repubblica Italiana, grazie alla presbiopia dei Padri Costituenti, fu il primo stato al mondo a porre la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio non solo nella propria Costituzione, ma fra i princìpi fondamentali dello Stato (art. 9).
Per quasi sovrapporsi, infine - idealmente - al messaggio ecumenico custodito nel Rosone della Cattedrale troiana e nei suoi 11 petali, in una sorta di ispirazione spirituale dal forte impegno etico e morale: segnato, in particolare, dal carisma multilaterale di Giorgio La Pira, col ripudio della guerra e con il suo inserimento proprio nell’Art. 11: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;…..”.
Una ventata salutare di speranza, un vortice di impegni trasversali: autentico “Sigillo di Pace”. Eminenza, grazie per avermi fatto riapprezzare tutto questo. La spetto a Troia! Vi aspetto tutti in Puglia!
(gelormini@gmail.com)
Per leggere il testo integrale della lettera: https://www.donlorenzomilani.it/lettera-alla-costituzione-del-cardinale-zuppi/