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'Enrico Berlinguer. Per Noi', il ricordo di Pierluigi Castagnetti e altri
Berlinguer-per noi

A cavallo tra i 100anni dalla nascita e i 40anni dalla morte prematura di Enrico Berlinguer, Edizioni Radici Future (ERF) ha chiesto a 18 testimoni-protagonisti della politica, dell’impegno sociale e della vita culturale di celebrarlo in un’antologia di ricordi e testimonianze, coinvolgendo ciascuno a presentare il ‘suo’ Berlinguer.

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In “Enrico Berlinguer. Per Noi” di Autori diversi - Edizioni Radici Future, 2023 pagg.148 16,00 €, emerge uno statista timido e introverso nel carattere, ma coraggioso, innovativo e lungimirante nella visione politica. Dall’introspezione a più voci, l’essenza dell’antologia ci consegna la necessità di tornare all’etica come motore per l’impegno civile, mantenendo saldi i principi democratici e fondativi della Repubblica Italiana.

Il libro analizza la complessità umana della leadership berlingueriana, portando in primo piano la capacità di affrontare con la sua proposta - audace e incisiva - i nodi di un’Italia che fu. Non un semplice omaggio alla figura carismatica, ma un confronto corale con una personalità tra le più amate ed apprezzate della politica italiana.

Ospiti della presentazione del 13 aprile nell’Aula Consigliare del Palazzo della Città Metropolitana alle ore 16,45 Francesca Pietroforte, Ferdinando Pappalardo, Titti De Simone, Paola Romano, Giusy Giannelli e gli autori Enzo Lavarra e Mario Loizzo. Modera Rossella Matarrese.

Mentre all’incontro del 17 aprile nell’Aula ‘G. Contento’ della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari ‘A. Moro’, in Piazza Cesare Battisiti alle ore 9,45, interverranno Stefano Bronzini, Gero Grassi, Carlo Spagnolo e Laura Mitarotondo, insieme agli autori Loredana Capone, Gianvito Mastroleo, Leonardo Palmisano, Rosaria Lopedote, Mario Loizzo e Roberto Voza.

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Il libro è già disponibile in tutte le librerie. Qui di seguito l'intervento di Pierluigi Castagnetti:

BERLINGUER PER PIERLUIGI CASTAGNETTI 

Mi capita spesso di pensare che a ogni uomo la Provvi-denza riserva sfide adeguate alle sue capacità di affrontarle.

Quelle toccate a Enrico Berlinguer non erano tra le più fa-cili.

È stato eletto, infatti, segretario del PCI proprio quando

il Partito non poteva non risolvere la sfida del salto di quali-tà. Che comportava la necessità dello sganciamento da Mo-sca, l’accettazione prima sul piano culturale e poi su quello politico dell’appartenenza dell’Italia allo spazio geopoliticoeuropeo e, dunque, occidentale, alla condivisione profondae convinta del valore irrinunciabile della democrazia.La democrazia, appunto.Se si pensa che il PCI è stato il partito che ha pagato ilprezzo umano più alto alla conquista della democrazia nelnostro paese nella lotta partigiana, e ha contribuito in mododecisivo a scriverne in Assemblea costituente un modellooriginale e considerato, per la definizione di alcuni istitutianche inediti, tra i più solidi fra i tanti che vennero scrittinella stagione apertasi nei Paesi del continente dopo la fine

25della seconda guerra mondiale, non si riesce a comprenderecome gli siano poi occorsi tanti anni per accettare a livello ideologico e, dunque, politico, questo valore. Nella pras-si no, “il popolo comunista” come quello delle altre grandi forze popolari a partire dalla Democrazia Cristiana, viveva e contribuiva a realizzare concretamente, nella partecipazio-ne alla vita politica del Paese, questo valore. Ma nella teoria della ideologia cui si ispirava, la democrazia era considerataancora un valore quantomeno da discutere e approfondire,cioè un valore borghese e non rivoluzionario.

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Su questo bisognava fare chiarezza definitiva, senza con-tinuare a mostrare quella prudenza che lo aveva bloccato per tanto tempo. Sarebbe stato necessario che la facesserotutti i partiti comunisti europei alleati del PCI, a partire daquello dell’URSS. E a Berlinguer toccò di andare a dirlo alCongresso del PCUS, in un’atmosfera di tensione, sorpresae crescente diffidenza.

A rileggere oggi quell’intervento si percepisce la tensio-ne, l’incredulità dei delegati che ascoltavano, la fatica psichi-ca e, dunque, il coraggio di chi pronunciava quelle parole. Eppure, oggi si sarebbe indotti a pensare, “per così poco,per una verità così semplice...”. Invece no, sono parole che vanno situate nel contesto di quegli anni. Così come le pa-role dette sulla NATO, sull’“ombrello” della Nato che rende-va più sicuri di quello del Patto di Varsavia, o quelle dette a favore della necessità di un’Europa dei popoli, e persinodelle “forze sane” di una parte del capitalismo, sinceramenteorientate a una prospettiva di progresso.Passi lenti, ma unidirezionali. Parole che diventavanofatti. Quanto alla lentezza bisogna osservare che essa nonrivelava né affanno, né incertezza, ma semplicemente consapevolezza che per portare avanti tutt’intera la carovanabisognava farsi carico degli ultimi del convoglio.

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Berlinguer come Moro era, infatti, convinto che le tran-sizioni debbono essere percorse dal Partito unito e tutto in-tero. Dopotutto erano lussi possibili, perché a quei tempi si parlava di transizioni interne alle storie dei grandi partitipopolari, e non, in senso stretto, dei passaggi della grandeStoria, come a me pare accada nella transizione in cui siamoimmersi oggi. L’unità del partito allora era ancora un mito,anzi di più, era la condizione per fare le cose e i cambiamenti.“Meglio sbagliare insieme che avere ragione da soli”, dicevaMoro. Un pensiero evidentemente condiviso da Berlinguerche conosceva molto bene la complessità del suo Partito edel suo gruppo dirigente. Era consapevole soprattutto deilegami internazionali del PCI che era stato in una qualchemisura “rifondato” nel 1944 da quel Palmiro Togliatti cheera stato uno dei maggiori esponenti dell’internazionalismo comunista, in nome del quale tanti errori consapevoli si era-no poi dovuti consumare.

Ma era ormai giunto il tempo in cui bisognava, seppur con molte cautele, liberarsi da alcuni di questi vincoli dot-trinari che tarpavano le prospettive politiche del PCI. Un Partito che non poteva continuare ad accontentarsi di gui-dare i governi di città e regioni, rinunciando alla possibilità di divenire forza di governo nazionale, a causa dei suoi le-gami internazionali. Il proprio popolo doveva essere prepa-rato a qualche strappo con il paese guida del comunismo internazionale. Non era giusto continuare ad assistere ester-refatti e fedeli ad alcune invasioni sovietiche di Paesi ami-ci, come l’Ungheria e la Cecoslovacchia e pagare il prezzo di tale fedeltà sul piano della credibilità nel proprio Paese.

Non si poteva continuare ad assistere silenziosi alla messain discussione del principio irrinunciabile della democrazia.E queste cose Berlinguer, come abbiamo ricordato, andò a dirle a Mosca. Dunque, quest’uomo dall’aspetto mite e fra-gile, mostrò un coraggio politico enorme, che ha aperto una riflessione e una strada nella storia del comunismo mon-diale, anche per altri partiti “fratelli”. Non era facile essere comunisti in un Paese appartenente all’Occidente e alla sua organizzazione militare, non era facile in quel Paese coltiva-re la prospettiva di diventare forza definitivamente legitti-mata al governo.

Enrico Berlinguer e Aldo Moro (Roma, 1977)Enrico Berlinguer e Aldo Moro (Roma, 1977)Guarda la gallery

È vero che la regola della democrazia è quella del consen-so, cioè dei numeri, ed è altrettanto vero che nessuno avreb-be avuto titoli per mettere altre condizioni, epperò, se il PCI continuava a essere ritenuto estraneo a tale prospettiva, sefaticava a guadagnare consensi anche solo in grado di porlo al centro di una ipotetica coalizione maggioritaria che lo ve-desse protagonista, non era solo a causa di una maledizione della storia, ma confermava semmai la consapevolezza chein democrazia occorrono i numeri, sì, ma occorre anche lafiducia delle istituzioni internazionali in cui il proprio Paeseè inserito, fiducia che a sua volta è motore di una possibilecrescita del consenso elettorale.E occorreva e occorre anche oggi imparare in una certamisura a “maneggiare” la storia, imparare “a fare” la storiacon gli strumenti della democrazia, con “l’intelligenza degli eventi” come la chiamava Moro, con la coltivazione dell’atti-tudine alla mediazione, con l’interlocuzione con altre realtà che in tutte le democrazie concorrono a far andare avantile cose, in competizione ma spesso solo in concorso con lapolitica, come l’economia, la cultura, le religioni. Occorr cioè educarsi ed educare i propri sostenitori a una inevita-bile pazienza attiva.

Su queste prospettive e questi problemi bisognava misu-rarsi con alcuni importanti partiti fratelli, soprattutto euro-pei ma anche di alcuni Paesi in via di sviluppo, con cui fare rete e fare resistenza rispetto all’esosità dei vincoli interna-zionalisti. Dopo aver posto il problema a Mosca, Berlinguer, lentamente ma con determinazione, si dedica alla costru-zione di un’area abbastanza vasta di partiti comunisti na-zionali che si pongono unitariamente verso l’elettorato e le istituzioni comunitarie, il cosiddetto eurocomunismo.

Cosa e chi sollecitava Berlinguer a questi passi solo ap-parentemente distinti, ma nella sua mente e nel suo disegno tutti collegati? La sua intelligenza di dirigente autorevole estrutturato, le posizioni più riformiste che emergono conforza all’interno del suo Partito, la sua capacità di visioneinternazionale, il riconoscimento dell’esaurimento delle“spinte propulsive” dell’ideologia e delle prassi di governoche si riferiscono al marxismo, e – come lui stesso dirà – unalettura onesta e preoccupata di quanto era da poco accaduto in Cile, dove l’11 settembre 1973 un colpo di stato aveva de-posto e ucciso il Capo del governo Salvator Allende: “questo colpo di Stato è molto grave e reca con sé sinistri presagi”.

berlinguer a mosca con pajetta e cervettiberlinguer a mosca con pajetta e cervettiGuarda la gallery

Due giorni dopo il dibattito alla Camera dei Deputati suquesto tragico evento, Berlinguer pubblica il primo dei trearticoli, Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, con i quali avanzava la proposta politica di “un nuovo grande compro-messo storico” fra le forze che raccolgono e rappresentano la maggioranza del popolo italiano, proposta che, ribadendoil rifiuto di una “alternativa di sinistra”, rimaneva orientatasulla linea fissata nel congresso del 1972 di una “alternativa 29democratica”. Oltre agli stretti legami con gli eventi cileni, la proposta di compromesso storico aveva un nesso con “la li-nea di politica internazionale rivolta al comunismo europeo occidentale”. Una proposta che assegnava al comunismoitaliano e all’Italia una missione difficilissima e ambiziosa, quella di costruire un laboratorio politico per la liquida-zione del paradigma della guerra fredda.

La riflessione sul Cile è stata, infatti, ben più che un pretesto, nel senso che a Berlinguer stava a cuore la situazione italiana e la possi-bilità che il PCI potesse trovare definitiva legittimazione al governo, offrendo e offrendosi per la realizzazione di una strategia di coinvolgimento di tutte le grandi forze popola-ri per fronteggiare la cosiddetta “guerra civile strisciante”, rappresentata dalla strategia della tensione messa in atto daforze antisistema: sono quelli gli anni dei grandi attentati abanche e a infrastrutture di comunicazione e, un po’ dopo, di una massiccia serie di attentati terroristici a uomini poli-tici, sindacalisti, imprenditori, manager e giornalisti.

Sicché il compromesso storico diventa la proposta da un lato perdisincagliare il comunismo italiano da una condizione di “perenne attesa”, e dall’altro per risolvere problemi dramma-tici che stavano paralizzando il Paese, prigioniero ormai di una inflazione a due cifre che ne bloccava ogni potenzialitàeconomica.L’incontro con Moro divenne inevitabile, non foss’altroperché le strategie dei due sembravano coincidere, pur soloin parte. Moro, infatti, non a caso descriveva la sua come “solidarietà nazionale”, una definizione in sé meno politi-camente compromettente di quella comunista del “compro-messo storico” e, comunque, destinata a una durata tempo-ranea, in attesa della maturazione delle condizioni di una 30compiuta democrazia dell’alternanza. L’incontro ci fu e fu decisivo per entrambi: Berlinguer ottenne il riconoscimen-to per il suo Partito di forza politica legittimata al governo e Moro ottenne per il suo un apporto parlamentare decisi-vo per un governo che fosse in ogni caso il più partecipa-to possibile, ovviamente nelle condizioni date, per meglio affrontare un passaggio storico decisivo.

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Ognuna delle duemaggiori forze politiche, con un certo grado di ambiguitàconsapevole e condivisa, continuava a chiamare quella fasecol nome che essa le aveva attribuito, seppur fossero nomiper designare cose diverse.Quegli anni sono stati indagati in profondità ed è sempreinteressante rileggere le costruzioni di quei passaggi e dei colloqui fra i leader del PCI e della DC in particolare, per co-gliere le ricchezze delle personalità che vi partecipavano, ma nondimeno per conoscere le dinamiche politiche di quellafase storica. I libri di Luciano Barca (Cronache dall’internodel vertice del PCI, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005) e di C. Belci e G. Bodrato (Moro, la DC, il terrorismo, Morcellia-na, Brescia 2006), sono sicuramente quelli più documentati, proprio perché scritti da testimoni diretti e descrivono una verità spesso narrata da altri in modo un po’ troppo appros-simativo.

Purtroppo quell’esperienza di governo finisce, di fatto, dopo l’assassinio Moro, quando Berlinguer, privo del “gran-de interlocutore”, non ha potuto o non è più riuscito a ri-costruire un disegno che da un lato conservasse l’unità del suo Partito e dall’altro gli garantisse un protagonismo anchenella discussa fase del decennio degli anni Ottanta. La scenaera cambiata e i protagonisti recitanti erano divenuti Craxie De Mita.

Resta però la grandezza di un leader che è stato capace di andare oltre la continuità con i suoi predecessori, affron-tando tutti quei nodi che fino ad allora avevano impedito ai comunisti italiani di giocare un ruolo politico significativo,dopo la rottura del Tripartito del 1947.

(gelorminigmail.com)

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