Enrico Dalfino e la favola agrodolce
“Riso fuori sede” di Silvia Rizzello
Enrico Dalfino, la Casa dello Studente, l'arrivo della Vlora nell'arazzo letterario di Silvia Rizzello "Riso fuori sede"
Il 24 agosto 1994 Enrico Dalfino tornava al Padre, 3 anni e 3 settimane dopo il drammatico arrivo della "Vlora", che sconvolgerà la vita e la storia di una città, di una regione "frontaliera" e poi dell'intero Paese. 8 agosto 1991: un giorno che segnerà trasversalmente persone e coscienze. Uno spartiacque, che la piega degli eventi rivelerà "fatale" per l'allora Sindaco di Bari.
“La vidua! La vidue?” Il grido allarmato riecheggiò, squarciando il silenzio ovattato e accidioso quella mattina d’agosto del 1991, circa mille anni dopo il primo avvistamento - “liberatorio” dall’incubo asfissiante dell’assedio musulmano - della potente flotta veneziana al comando del doge della Serenissima Pietro Orseolo II.
Questa volta, però, la speranza non albergava tra lo sconforto “a riva” di una città mortificata dall’assedio arabo. Questa volta, la speranza avanzava lenta e inesorabile, vestendo i panni della disperazione e soffocata nel vocio brulicante di una sorta di gigantesco “favo galleggiante”, a bordo di una vecchia nave dal nome glorioso di una delle più antiche capitali albanesi: Valona - Vlora.
In questa ciclicità dei corsi e ricorsi storici, che nella millenaria tradizione africana è rappresentata e vissuta nel cosiddetto “Cerchio della vita”, nonché nel contesto temporale di una Bari culturalmente “contaminata”, che in quegli anni è ancor più capoluogo vivace di transito e di frontiera, si dipana l’arazzo letterario e multietnico di Silvia Rizzello: “Riso fuori sede” - Kurumuny Edizioni, 2016.
Lo spaccato di una città sul mare e non di mare, che ha poco in comune con Marsiglia, Valencia o Genova, ma molto invece con Atene, con Istanbul o con la più lontana Los Angeles. Un quartiere antico, in cui ancora oggi, ogni domenica mattina, è possibile vivere un’emozione devozionale caleidoscopica: pellegrinando tra le diverse chiese di Bari Vecchia concesse - dalla Diocesi Arcivescovile - alle diverse comunità estere, che vi celebrano i loro variopinti e tipici riti religiosi e liturgie.
Un crocevia dove riso e sorriso da sempre sono il lievito per processi di integrazione e di rivisitazioni conviviali innovative: dalla “paella” e “cous cous” riproposte in versione levantina nel famoso “riso patate e cozze” o nella meno conosciuta “semola battuta” (paragonabile anche a una sorta di “polenta meridiana”), ai giocatori in coppia di “taula” o “backgammon” che si moltiplicano sulle panchine improvvisate dei giochi a carte (tresette, briscola, scopone o quintino a perdere) con l’immancabile bottiglia di “Peroncino”.
Qui, sul lungomare di fronte a quell’orizzonte largo e profondo verso Est e i Balcani, in quegli anni la Casa dello Studente - adiacente alla Facoltà di Economia e Commercio di Largo Fraccacreta - diventa inevitabilmente “un porto sul Porto”, dove la stessa Mensa Universitaria assume i contorni simbolici e subliminali della più nobile forma di accoglienza: “la condivisione”.
La casa di Lilou, protagonista del libro della Rizzello, ne diventa appendice spontanea, rendendo permanente l’originale “agorà multietnica”, in cui sogni, progetti, nostalgie e amori si dipanano tra piatti di foutou, riz gras, incrociandosi col rituale intreccio dei capelli o il miscelarsi dialettale degli idiomi.
Anche per questo la figura matriarcale “diffusa” di Lilou si sovrappone quasi a quella di Enrico Dalfino, a cui il libro è dedicato, che da Sindaco di Bari raccolse per primo il grido allarmato di quell’8 agosto del 1991, dando insieme all’intera comunità cittadina una testimonianza viva e personificata dell’accoglienza e dell’apertura verso orizzonti non mappati.
Quando Enrico Dalfino nel 1975 tornò a Bari, per insegnare Diritto Pubblico, fu come una sana folata rigeneratrice nelle aule stantie della facoltà di Economia e Commercio. Sin dal primo istante, sorriso e affabilità conquistarono l’attenzione e la stima della nutritissima schiera di discenti. Bisognava prenotare i posti in quella spoglia aula magna trasformata nella più accessibile delle “agorà”, in cui nemmeno la più noiosa delle mosche osava disturbare la lezione di quel "Pericle contemporaneo", al centro di un improvvisato ma più “democratico” anfiteatro.
L’oratoria ammaliante, l’entusiasmo coinvolgente, la passione “Costituzionale” e una sorta di naturale carica innovativa, aprirono porte e finestre di una Facoltà austera e decadente. Per allargare visione e prospettive verso un mare e un mondo che, all’indomani del ’68, cominciavano a muoversi lungo dorsali in parte ancora sconosciute ed a ritmi decisamente dettati dalla vivacità di un’affascinante modernità.
Come non rimanere conquistati dalla sua venerazione per la Carta Costituzionale, dalle analisi sul lavoro dei “Padri Costituenti”, dal suo “senso dell’Istituzione”, che con gentile tenacia si compiaceva di inculcarci, stimolando rispetto e impegno civico comuni e personali. Qualche anno prima erano state varate le Regioni e da poco anche l’assetto giurisdizionale si andava adeguando alla nuova architettura amministrativa, con l’istituzione dei TAR (Tribunali Amministrativi Regionali). Per cui, durante i seminari di approfondimento con i primi Presidenti degli stessi TAR, era già evidente quanto stretto gli stesse il corso in Istituzioni di Diritto Pubblico, che ben presto sarà trampolino per la docenza prima in Diritto Costituzionale e poi in Diritto Amministrativo presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari.
L’arrivo della “Vlora” e del suo carico di oltre quindicimila “disperati” mise a dura prova il suo essere Sindaco di Bari e il suo impegno di cristiano in politica. In sgomenta solitudine, dovette responsabilmente farsi carico di decisioni pesanti. Lo fece con piglio da leader, facendo ricorso alla forza biblica “dell’accogliere e conoscere”. Perché avvertì come Bari, la Puglia e l’Italia fossero “l’ultima speranza” per quelle che - in realtà - furono circa ventimila persone: avanscoperta drammatica di un disagio diffuso, che montava inesorabilmente al di là dell’Adriatico.
Sono convinto che l’accoglienza e la conoscenza come metro e strumento di organizzazione e reazione non solo pratica, ma anche politica, spensero in quel momento una miccia pericolosamente accesa da occulti artificieri internazionali. Non si spiega altrimenti la reazione scomposta di un Capo di Stato come Francesco Cossiga, che forse tradiva più la sorpresa dello stratega-sentinella di equilibri occidentali, che la funzione “maieutica” di Presidente della Repubblica di un Paese-approdo di tanta siffatta disperazione. La “sberla istituzionale” presa inaspettatamente dal “servitore dello Stato” Enrico Dalfino, che aveva speso una vita ad inculcare il “culto dell’Istituzione” ai suoi discepoli, e che si sentì richiedere “delle scuse per il suo comportamento umanitario”, fu di una forza devastante inusitata. I cui effetti inclementi, purtroppo, saranno evidenti qualche anno dopo.
Difficile pensare alla commistione del Presidente della Repubblica in contese di correnti dell’allora DC. Così come risulta inconsistente l’apparente diatriba sulla proprietà e l’utilizzo dello Stadio della Vittoria, soprattutto in funzione di una situazione di emergenza dalla lampante, sconvolgente e drammatica evidenza. Fu lo stesso presidente Cossiga, infatti, a classificarlo: “Un fatto di Stato”.
Resta il rammarico della meteora Dalfino trasformata in una cometa, in un mattino d’agosto del 1991. E il proposito di continuare a ricordarlo e raccontarlo, per “rinnovarne con orgoglio voce e pensiero”. Un impegno solenne e indelebile, dato il ritorno al Padre il giorno del mio compleanno. Grazie a Silvia Rizzello, per avermene dato l’occasione attraverso la lettura e il commento del suo “Riso fuori sede”.
(gelormini@affaritaliani.it)