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Feste Patronali in Salento: ritorno a Tecla
Feste patronali in Salento: 'Ripercorrendo la mia adolescenza: ricordo di Tecla' di Rocco Boccadamo.
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di Rocco Boccadamo
Sono arrivato al mondo in un rione periferico del minuscolo paese di Marittima, una sorta di isola urbana intessuta di viuzze e di modeste abitazioni. Queste ultime, pressoché uniformi a piano terra, salvo due, dei fratelli Angelo e Fortunato, che, a livello stradale, presentavano locali adibiti a rimessa, o magazzino di deposito attrezzi e/o derrate, laboratorio artigianale, e, in più, comprendevano anche una prima elevazione di due o tre stanze vere e proprie, cui si accedeva da singole e separate scale coperte ricavate ai lati estremi dell’edificio.
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La denominazione di detto agglomerato di famiglie, e di vita, era, lo è pure adesso, beninteso in un ambiente sociale e anagrafico totalmente mutato, “Ariacorte”. Gli abitanti, contadini e/o addetti a correlate attività produttive e di trasformazione, ad esempio coltivazione e raccolto di cereali, legumi e tabacco, incluse migrazioni, soprattutto nel Brindisino, per prestazioni d’opera in stabilimenti vinicoli e frantoi oleari.
Un’assoluta e diffusa comunanza di mestieri, dunque, che concorreva alla realizzazione di un vero e proprio tutt’uno, con anime quasi condivise, di popolo, abbracciante qualsiasi stagione, bambini, ragazzi, giovani, anziani, vecchi, uomini e donne. Sino a sette/otto anni, ossia alla frequenza iniziale delle Elementari, per me l’Ariacorte ha significato la somma, si è identificata con il mio mondo complessivo, ruotante intorno alla conoscenza familiare, intensa e puntualissima dell’intera comunità lì abitante, compresi i dettagli apparentemente senza significato.
Del resto, allora, gli usci delle case si lasciavano aperti o socchiusi sia di giorno sia di notte, non esistevano misteri fra vicini, regnava uno spirito di mutualità reale, indistintamente fra i domiciliati del rione, esattamente come all’interno di ogni focolare. Facendomi più grandicello, insieme con la consuetudine riferita al mio nido delimitato, mi si sono invece affacciati i contatti, le frequentazioni, le amicizie, gli svaghi, insomma la conoscenza, con la gente, specialmente coetanea, che viveva nelle restanti zone della località.
In siffatto allargamento di orizzonti, sono giunto, unitamente a due o tre “antichi” amici del cuore, ad accostarmi e, gradualmente, ad accedervi su un piano di confidenza, a una famiglia, non esattamente originaria del paese e, tuttavia, nota e conosciuta. Il padre Riccardo e la madre Cosima, già di mezza età se non anziani, e tre figlie nubili, Chiarina, Filomena e Tecla, queste ultime, invero, ben più adulte, all’incirca da quindici a cinque anni in più, rispetto a me.
Provenienti da un paese situato precisamente all’estremità del Tacco salentino, abitavano in una modesta casa presa in affitto all’inizio di Via Roma, dove, adesso, ha sede un’istituzione locale, due camere sul fronte, una, con porta d’accesso, fungente da soggiorno e tutto, l’altra, con finestra, stanza da letto dell’intero nucleo; infine, un vano cucina e un cortiletto, sul retro. Il capo famiglia faceva il pastore, guardiano di pecore, una famiglia benestante del paese gli aveva affidato la cura e la gestione del proprio gregge (murra in dialetto) di ovini, in cambio di una determinata porzione dei frutti di detti animali, ossia a dire lana, formaggio e ricavo dalla vendita degli agnellini destinati al macello.
La padrona di casa, a sua volta, collaborava nel disbrigo delle faccende domestiche e servizi vari nella magione dei medesimi signori, in contropartita di qualche aiuto o beneficio. Le figlie, da parte loro, avevano appreso un mestiere, chi l’arte del ricamo, chi della maglieria, chi del cucito e si dedicavano a connessi lavoretti per conto di famiglie del paese; in aggiunta, le due sorelle maggiori, quando si presentava l’occasione, andavano “a giornata” in fondi agricoli di terzi. Nei miei ricordi e secondo il mio sentire da adolescente, vuoi i genitori, vuoi le figlie in argomento, si distinguevano positivamente per la loro semplicità, cordialità, il tratto gentile e, un po’ per volta, andavano accogliendo di buon grado, in alcune ore del giorno libere da impegni scolastici, il gruppo di giovanissimi compaesani, quasi fossero di famiglia.
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A prescindere da quanto sopra, Tecla, in particolare, aveva un volto leggiadro e un temperamento dolcissimo; ancora, aveva una voce intonata e soave, una dote naturale che, abbinata all’ascolto delle musiche liriche sinfoniche eseguite dai complessi bandistici che convenivano nel paese in occasione delle feste patronali, di tanto in tanto la induceva ad accennare tratti di soavi melodie. Allo specifico riguardo, mi viene a mente la sua “esibizione” in casa, una sera, alla presenza del Priore della locale Confraternita, il quale, a sua volta, aveva una bella voce tenorile, con un famoso brano del “Rigoletto” verdiano:
“Tutte le feste al tempio mentre pregava Iddio bella e fatale un giovine offriasi al guardo mio... se i labbri nostri tacquero, dagl'occhi il cor, il cor parlò. Furtivo fra le tenebre sol ieri a me giungeva... Sono studente, povero, commosso mi diceva, e con ardente palpito amor mi protestò. Partì... il mio core aprivasi a speme più gradita, quando improvvisi apparvero color che m'han rapita, e a forza qui m'addussero nell'ansia più crudel”. Strofe che, da quella sera conservo pressoché integralmente vive dentro di me.
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Sull’onda del suo genuino e approssimativo amore per la lirica, Tecla finì col conoscere un giovane solista di una banda musicale del Barese, di nome Mario, innamorandosene e poi sposandolo. Per sua sfortuna, però, avanti di tali importanti eventi, a Tecla toccò di sopportare il travaglio e la sofferenza di una grave malattia, fu costretta di conseguenza a un lungo periodo di cura in una struttura lontana da casa, da cui, per fortuna ritornò guarita. Era bella, dicevo poco fa, Tecla, e dolce. Sotto le pulsioni acerbe ma incontenibili di un quindicenne/sedicenne, in un occasionale momento in cui, a casa sua, c’eravamo solamente lei ed io, successe che mi spinsi e provai ad abbracciarla e baciarla. Non con una reazione violenta, e però con decisione, Tecla si sottrasse alle mie avances, dopo di che, esito imprevedibile, proruppe in un pianto accorato e profondo.
Mi sembrò di capire che provasse dispiacere e rammarico, non tanto per l’iniziativa che aveva subito, quanto giacché io avessi maturato di compierla. Me ne scappai via, anche se continuai a frequentare la casa di Tecla. Fra quelle pareti, l’8 agosto 1956, mi trovai testimone vicino di una tragica notizia caduta sulla famiglia di Tecla, inerente alla conosciuta sciagura mineraria di Marcinelle in Belgio, dove persero la vita tantissimi italiani, compresi molti salentini e, fra questi ultimi, un giovane parente del loro paese d’origine all’estremità del Tacco. In attesa degli aggiornamenti e sviluppi della notizia, restai vicino alle amiche.
Si inanellarono gli anni, per me scoccò la data del diploma e, subito dopo, l’impiego, con la partenza da Marittima e, a breve distanza, anche Tecla, sposandosi, si trasferì dal paese.
Nei successivi, all’incirca quindici, lustri non ho mai avuto modo di rivederla, mentre, mantenendo senza interruzioni i contatti con le mie origini e la mia Ariacorte, mi è stato dato, almeno per un certo periodo, di seguire il resto dell’esistenza dei genitori Riccardo e Cosima, e della sorella maggiore Chiarina, fermatasi a Marittima
Messa su famiglia, era partita, invece, anche l’altra sorella, Filomena, la quale c’è ancora, in estate è solita rimpatriare e, in un paio di occasioni, ho avuto modo d’incontrarla, così rievocando, insieme, quei tempi lontanissimi, con affetto e gioia. Purtroppo, però, nell’ultimo contatto, dalla voce di Filomena, ho appreso che la bella Tecla non c’è più. Attraverso queste righe, pregandoti di scusarmi per quella volta, ti mando un ciao, Tecla.