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Fondazione Di Vagno, 'Europe First!': populismo ed elezioni

Francesco Petrocelli

Il pericolo imminente di una “ondata” populista al centro dell'incontro della Fondazione Di Vagno a Bari “Partiti e coalizioni in vista delle elezioni europee”

Il pericolo imminente di una “ondata” populista al centro del primo dei due appuntamenti dedicati alle elezioni europee di maggio, organizzati dalla Fondazione Di Vagno per la Scuola di Buona Politica 2019, e ospitati dall’Università degli Studi di Bari.

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Sul messaggio lanciato; “Europe First!”, ad animare il dibattito, “Partiti e coalizioni in vista delle elezioni europee”, il politologo e accademico Piero Ignazi, il corrispondente tedesco per l’Internazionale Michael Braun e il professore e sociologo Onofrio Romano, moderati da Michele De Feudis, giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno.

Pericolo populista che, secondo il professor Ignazi (che ha curato recentemente, per Il Mulino, il volume “I partiti in Italia dal 1945 al 2018”), è limitato e spesso non concreto. “Cinque anni fa eravamo sicuri che il ‘lupo’ Beppe Grillo avrebbe stravinto. Oggi ci troviamo nella stessa situazione, con la sola differenza che il ‘lupo’ è il sovranista nero”.

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“Ma l’ondata populista non sfonderà - ha ribadito Ignazi - perché non ci saranno gli euroscettici inglesi e soprattutto perché il M5S ha profondamente mutato atteggiamenti e dichiarazioni, distaccandosi dalla presenza imbarazzante di Nigel Farage, avvicinandosi già nel 2006 ai liberali dell’Alde e non votando mai insieme alla Lega al Parlamento europeo”.

“L’antieuropeismo, nonostante i numeri del Carroccio e di altre realtà sovraniste in Europa – ha sottolineato Piero Ignazi - non occuperà più di un quarto degli scranni del Parlamento europeo. Il vero merito degli oppositori è di aver reso vivo e politico il tema Unione Europea, che ora divide l’opinione pubblica. Senza dubbio ci sarà, per queste ragioni, un aumento della partecipazione elettorale”.

Volt europa

Parlare di Europa spesso vuol dire parlare di un’Unione a trazione tedesca, nel bene o nel male. A ciò si aggiunga che molte esperienze italiane salutano, con speranza, i modelli della Germania: ai Verdi guardano con interesse Michele Emiliano e il movimento “Italia in Comune” del dissidente grillino Federico Pizzarotti e del vice coordinatore nazionale Michele Abbaticchio (sindaco di Bitonto); alla destra protezionista dell’AfD (Alternative für Deutschland) ammiccano molti sovranisti dello Stivale. Ma per Michael Braun, tra i massimi esperti del quadro politico tedesco, gli Italiani devono “andarci piano con queste speranze, perché la situazione attuale della Germania è differente”.

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“La Germania - ha proseguito Braun - non è solo economicamente molto più solida dell’Italia, ma è anche uno stato che non fa i conti con una destra anti-Ue davvero forte. Se è vero che AfD già al turno elettorale del 2014 aveva sforato il 7% e oggi è presente in tutti i parlamenti tedeschi e in tutti i territori, è anche vero che questa non può incrinare un forte consenso europeista della politica e dei cittadini della Germania, poiché raggiungerà nella migliore delle ipotesi il 13%.  Il restante 80% abbondante costituisce, a vari livelli, un blocco eterogeneo ma europeista”.

Sembra proprio questa, infatti, la differenza con il popolo italiano. “Il comune sentire degli elettori tedeschi - ha precisato l’editorilista tedesco - va in controtendenza con quello dell’Italia, che vent’anni fa era il Paese più europeista e, dopo aver attraversato la crisi dell’euro, vede quasi il 70% dei suoi cittadini contrari alle politiche comunitarie e scettici sulla moneta unica”.

weidmann merkel ape

Nel delineare l’assetto politico presente e futuro della Germania, Braun ha spiegato anche come Angela Merkel non abbia mai avuto forti convincimenti ideologici e come le istanze dei Verdi abbiano acquisito così tanta rappresentatività.

“I Verdi sono mossi da una spinta ecologista e pacifista e, a differenza del caso italiano, non hanno mai avuto una scissione. Sono presenti da trentacinque anni e sono stati protagonisti di un vero e proprio exploit negli ultimi due, essendosi candidati a paradigma del partito europeista tout court, in antitesi al polo nazionalista dell’AfD, in uno schema nuovamente bipolare dove da tempo SPD e CDU si assomigliano fin troppo. I Verdi - ha concluso Braun - sono riusciti a diventare espressione della borghesia colta tedesca e delle accademie e puntano al 20%. L’esempio italiano più affine a questo è il Partito Democratico, maggiormente suffragato nei centri benestanti delle grandi città”.

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Non si è potuto, allora, non analizzare il paziente PD e non provare a tracciare l’identità della nuova stagione di Nicola Zingaretti. Per il sociologo Onofrio Romano a sinistra servirebbe una “grande trasformazione” - termine coniato dall’economista Karl Polanyi - che segni una riassunzione di sovranità collettiva e dei fattori di produzione.

“Ci si illude ancora che, passata la crisi, si possa tornare agli assetti precedenti al 2008”, ha detto Romano, “E invece si dovrebbe comprendere che sarebbe necessario un cambio di regime con i fatti, anche se a maggio non ci sarà una vittoria schiacciante dei populismi e anche se i protagonisti dello scenario attuale sono incerti e incompetenti, destinati ad affievolirsi rapidamente”.

“Gli ottanta euro, motto del renzismo, sono stati ridicolizzati e relativizzati quando invece sono stati, simbolicamente, un’operazione cruciale - ha fatto notare Romano - con cui Renzi raccontava la possibilità che la politica potesse tornare ad avere sovranità sul reale e a distribuire le risorse, rivolgendosi al ceto medio che vota”.

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“È una logica incompatibile con lo spirito dell’Ue, fondato sull’auto-attivazione del cittadino, che fa da sé e si disinteressa della politica. Renzi poi si è smascherato e gli ottanta euro si sono rivelati una mancia e non un simbolo”. Detto questo, la maggiore affluenza alle elezioni europee – per Romano - non sarà dettata da un ritrovato interessamento verso l’Ue, ma da un interessamento nuovo alla politica.

E Zingaretti? Per il sociologo, il nuovo leader del Partito Democratico si culla in una “visione consolatoria, convinta che a destra il polo sia lo stesso di dieci anni fa, rimescolato, e che la sinistra debba semplicemente pensare a sgonfiare il M5S. Negli ultimi trent’anni la sinistra è stata assorbita dall’ideologia neoliberale, orientata all’immaginazione di uno spazio neutro senza interventi sistemici. E se negli altri Paesi qualcosa si muove con Bernie Sanders, Jeremy Corbyn e Jean Luc Mélenchon, in Italia - ha concluso Onofrio Romano - certi temi rimangono un tabù, fatta eccezione per i tentativi di Stefano Fassina”.

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Per Piero Ignazi, invece, Zingaretti ha buone chances di amalgamare la galassia della sinistra. “Zingaretti parte con il vantaggio ‘epidermico’ di un’immagine accattivante. E’ sorridente e tranquillo come suo fratello. Renzi ebbe successo nel 2014 perché era giovane, spigliato e fuori dalle righe. L’altro elemento a favore di Zingaretti è che la sinistra ha finalmente individuato il nemico, e cioè la destra ‘barbuta’ che si presenta come avversario ideale su cui mobilitare i temi”.

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“Le sfiducie verso Kohl e la Thatcher - ha spiegato il professore di Bologna - insegnano come il voto funziona se si vota “contro” e non “per”. E l’opinione pubblica di sinistra ha chiaro che il problema si chiama Salvini, non Di Maio. Inoltre, in questa fase Renzi starà buono, aspettando un momento favorevole, e la galassia più radicale non proporrà nessuna alternativa al PD. Anzi, alcuni torneranno a casa”.

Il ciclo “Come si arriva al voto?” si concluderà con il seminario di martedì 26, su “Propaganda ed uso dei social media”, con Dino Amenduni, Marina Castellaneta e Gianvito Rutigliano.