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Giuseppe Di Pace, “Oltre il limite”
Il noir sociologico e introspettivo
Il limite come “margine” di confine o di demarcazione necessario per affrontare l’incognito. Come punto estremo di una resistenza, per rompere ogni indugio e per trasformare l’immaginario in un’esperienza liberatoria. Per certi versi: spersonalizzante; per altri, una sfida al recupero di frammenti identitari celati dalla coltre fuligginosa dei “giochi di ruolo” quotidiani.
E’ l’esercizio, non sempre riuscito, di ogni autore, che si appresta ad affrontare gli scogli della composizione, della scrittura, della pittura, della scultura e di ogni altra espressione artistico-artigianale che dir si voglia. E’ il salto che Giuseppe Di Pace effettua ogni qualvolta lascia la scrivania del vice questore, per volare tra le pagine e le parole della sua narrazione.
Il limite come sponda ultima non necessariamente verso il vuoto o il baratro, o meglio: proprio verso quel vuoto apparente (“Non è come appare” è il titolo del suo primo romanzo noir), che diventa pedana di lancio verso il volo planato della creatività letteraria.
Lo stesso salto realizzato da Giuseppe Di Pace con questo suo secondo romanzo: “Oltre il limite”, Besa Edizioni 2015, pagg. 410 - € 18,00 . Un salto che ha fatto spiccare il volo sugli scaffali delle librerie al suo lavoro, che in pochi giorni ha raccolto consensi, attenzioni ed apprezzamenti, confermando e svelando una maturità di scrittura già evidente e strutturata nella sua citata opera prima.
Il contesto si è fatto più attuale. In “Oltre il limite” la vicenda matura e si sviluppa nel confronto connivente di “due Chiese”: quella tradizionalmente clericale e un’altra più ipocritamente bigotta e niente affatto laica, che vive in simbiosi spesso palese con la prima. Il gioco tra “Prelature”, “Prefetture” (Vaticane e non) e “Preture” assume un intreccio di rimandi, desinenze e riferimenti, tale da diventare “trama” inquietante e suggestiva per la verosimile narrazione “noir” dell’autore.
L’introspezione investigativa, che mette in evidenza e scandaglia le tecniche operative e le applicazioni procedurali di routine, con inclemenza penetra nei contorni analitici del racconto, per “vivisezionare” derive e deviazioni di aspetti della “missione” che in entrambe le Chiese, o se vogliamo in entrambi i sistemi, prendono la piega malsana, contagiosa e non certo misericordiosa della vocazione. Una tecnica di scrittura simile a un esercizio spirituale d’impronta gesuita.
La maturità espressiva di Di Pace si manifesta nella fluidità del racconto e dei passaggi narrativi, ma anche nella padronanza con cui Infarcisce la suspance con assonanze compositive ad altri autori pugliesi o comunque mediterranei (Carofiglio, Bartlett, Viola, etc…). Così come nel sapiente utilizzo del dettaglio narrativo, per dar corpo a una coralità di personaggi utile alle esigenze della trama stessa.
Sin dall’apparente dimenticanza di Ascanio (il futuro) tenuto per mano da Enea, nella descrizione iniziale di un affresco (“Non è come appare”…), l’impressione è quella di un persistente sguardo all’indietro verso un passato dal quale riscattarsi (Anchise, fardello inerme, ma prezioso, sulle spalle di Enea), fino al salto liberatorio finale, che sorprenderà e darà senso e riscatto al dilagante clima di corruzione, che incombe pesantemente sull’intera dinamica narrativa.
In tale situazione la durezza dei linguaggi è una sorta di inevitabile conseguenza, che ben si sposa con l’atmosfera generale del noir. Infatti, trattando contesti a scarso indice di moralità, essa non potrebbe permettersi stonature linguistiche da galateo. Anche per questo, in uno dei passaggi finali, il chiaro riferimento alle parole di Francesco è come un improvviso fascio di luce che fende l’atmosfera, per restituirle l’eleganza dei riverberi ricchi della nobiltà povera della Carità.
Giuseppe Di Pace, in qualche maniera, si ritaglia un suo spazio nella galassia del romanzo noir con la specifica peculiarità del “noir sociologico”, che se nel primo lavoro attraversa la Storia e le contaminazioni generazionali e territoriali, in questa seconda fatica affronta il delicato tema della Fede e dell’appartenenza. In cui è la prima ad esaltare la seconda e non viceversa
Il continuo perdersi e ritrovarsi dei personaggi, lungo l’interminabile linea di confine del limite, mette in moto un gioco di sponda virtuoso, che trova la sintesi nel recupero del concetto della “soglia”, quella da varcare senza paura. La stessa che a Giulia (moderna Ascanio, per l’Enea-Sergio) consentirà di vivere l’esperienza al contrario: in una sorta di percorso “controcorrente”.
A Hollywood direbbero: “E’ nata una stella”, ma sul lungomare barese solitamente si è più diretti e più taglienti: “Beh, iè propr’i^ brave cus Di Pace!”
(gelormini@affaritaliani.it)