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Il 'De Nittis' ritrovato
tra le brume del Gargano
La "riscoperta" di un quadro di Giuseppe De Nittis nel Gargano arricchisce il patrimonio artistico pugliese
Il patrimonio artistico pugliese potrebbe arricchirsi di un nuovo tesoro, non particolarmente grande, ma piuttosto prezioso per l’insigne autore, a cui potrebbe essere attribuito: Giuseppe De Nittis.
Per la verità l’opera, un lavoro su legno (21x28cm) presumibilmente risalente al periodo a cavallo tra i cicli degli “scorci parigini” e le “vedute londinesi” dell’artista barlettano - affermatosi tra gli “Italiens de Paris” - è in Puglia da decenni, ma a dargli ritrovato valore sarà la consapevolezza diffusa del “riscoperto” capolavoro.
Il quadro appartiene alla collezione privata degli eredi del capo redattore diplomatico de “Il Messaggero” negli anni ’30, Francesco Maratea, di Vico del Gargano. E per l’imponderabile casualità degli eventi, si trova - ancora oggi - a pochi metri o passi da quella via dell’affascinante cittadina garganica, che l’inconsapevole attribuzione toponomastica decise - tempo addietro - di dedicare proprio a Giuseppe De Nittis.
Si badi bene, quando si tocca la produzione artistica del famoso pittore pugliese, che riuscì a dare un’impronta “meridiana” alla corrente impressionista nata in Francia nella seconda metà dell’Ottocento, i livelli di difesa, di scetticismo e di analisi critica salgono vertiginosamente. Anche alla luce del danno provocato, negli anni ’60, da una galleria proprio del capoluogo pugliese, che sfornava “De Nittis” come ruote di focaccia barese.
E’ per questo che, prima di sottoporre l’opera alla valutazione degli esperti, la proprietà ha voluto che a pronunciarsi fossero i laboratori di conservazione e restauro, con prelievo di campionatura per analisi stratigrafica, ma soprattutto quelli per l’analisi specifica della datazione dei materiali (legno, colori e supporti), che potessero confermare la loro compatibilità con le ipotesi di attribuzione dell’opera al XIX secolo.
I risultati positivi sono ora a disposizione dei critici, all’esame degli storici dell’Arte, nonché allo studio - insieme al quadro stesso - per il cosiddetto “ultimo miglio” verso la consacrazione formale.
Sono molti i lavori di Giuseppe De Nittis ancora ignoti alla critica, così come altri sono assenti dall'Italia da molto tempo, in particolare quelli che appartengono al ciclo delle vedute londinesi. Sono i lavori, che più di altri - secondo alcuni storici dell'Arte - al vedutismo impressionista intrecciano le suggestioni contaminanti di Turner.
Opere in cui è più evidente il tratto “dinamico” di De Nittis, dove il paesaggio non è affatto statico o fotografico, perché l’autore usa sapientemente le tonalità per animarlo - a volte più degli stessi personaggi indefiniti - per scrutarne la modernità e condividerla con lo spettatore. Diventandone a sua volta interprete “moderno”: elegante come un parigino o un londinese e incisivo come un autentico uomo del Sud.
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Francesco Maratea (Vico del Gargano, 1889 - Roma, 1977) - Esordì nel giornalismo nel 1904, sin dai banchi del liceo, con brevi, gustosi “corsivi” sul “Foglietto”, diretto da Gaetano Pitta, che si stampava a Lucera e aveva, allora, risonanza nazionale.
Nella sua prima giovinezza, si trovò alla “Gazzetta dell'Emilia”, quotidiano di Bologna, con Mario Missiroli, e di qui discese la fraterna amicizia fra i due. Fu redattore capo della “Gazzetta di Mantova” e della “Provincia di Como” e poi, dalla Capitale, per “Il Secolo” di Milano, diretto da Missiroli, a quel tempo in strenua competizione con “Il Corriere della Sera”, curò i resoconti parlamentari (1920-1924). Quando “Il Secolo” fu costretto ad abbandonare le sue origini cavallottiane e la sua linea avversa al regime fascista, Maratea passò al “Giornale d'Italia” di Bergamini (1924-1926), come redattore parlamentare e inviato speciale.
Luigi Pirandello, che coordinava “Il Messaggero verde”, l'inserto letterario del maggiore quotidiano romano, lo segnalò ai Perrone: così, Maratea varcò il portone di Via del Bufalo e, poi, di Via del Tritone, portando al “Messaggero” e al confratello genovese “Il Secolo XIX”, il prezioso contributo della sua cultura umanistica e di grande esperto di politica estera.
In politica, stava contro la prepotenza e le intimidazioni, da vero uomo libero. Ricordando le giornate della “mala” marcia su Roma, diceva: “Se dieci persone fossero uscite da Aragno con ombrelli e bastoni, non avremmo avuto il fascismo”.
Nel 1924, aveva polemizzato duramente con il regime, deponendo al processo Matteotti contro Mussolini (la sua deposizione fu pubblicata dal “Mondo” di Giovanni Amendola, al quale collaborava) e aveva assunto la carica di segretario degli Aventiniani, che, dopo l'assassinio di Matteotti, avevano abbandonato i lavori parlamentari e si erano ritirati sull'Aventino, in segno di dissenso dal Governo. Fu tra i “quartarellisti” più battaglieri (la “Quartarella” è la località della periferia romana, dove venne ritrovato il corpo di Matteotti), che cercarono, purtroppo invano, di far leva sul delitto politico, per indebolire e rovesciare Mussolini.
Nel settembre del 1924, a pochi mesi dal delitto Matteotti (10 giugno), l'VIII Congresso della Stampa, che si tenne a Palermo, lo vide tra i più decisi sostenitori della libertà di stampa, “patrimonio insopprimibile di ogni popolo civile”, e, con Mario Vinciguerra ed Enrico Mattei, propose, un ordine del giorno, in cui si chiedeva al Governo la revoca del decreto che, sottraendo la Stampa alla legge comune, di fatto la sottoponeva al bavaglio e agli arbitri del potere esecutivo.
Qualche anno dopo (1928), in piena restaurazione, Arnaldo Mussolini, in una lettera al fratello, dice, tra l'altro, che “il Messagero tecnicamente e fascisticamente parlando, fa pena”, aggiungendo che “non poteva essere diversamente se si tenevano ancora tra i redattori uomini come Francesco Maratea, Italo Panattoni, Piero Scarpa, e Alfonso Novara, con tutta la rete di corrispondenti immutati dai tempi democratici fino a oggi”.
Sempre nel 1928, Maratea era definito in una informativa di “fonte confidenziale” della Questura di Roma “antifascista e propalatore di notizie false ed esasperate contro il regime” e, perciò, fu inserito nel Casellario politico centrale, cioè, tra gli oppositori del regime. Ma, anche dopo la cancellazione dal “novero dei sovversivi”, tutti i suoi spostamenti furono scrupolosamente seguiti e controllati, figurando il suo nome, insieme con Francesco Sapori, Gino Severini, Sibilla Aleramo, Corrado Alvaro, Ugo Betti, Umberto Barbaro ed Emilio Cecchi, tra i destinatari della stampa antifascista, proveniente dall'estero (soprattutto i quaderni di “Giustizia e Libertà” di Nello e Carlo Rosselli).
E sin dai primi mesi della sua direzione (1932), Francesco Malgeri viene pesantemente attaccato dai fascisti: in alcune note informative a Mussolini del febbraio 1933, si dice, infatti, che “nella redazione del Messaggero sono avvenuti mutamenti in senso perfettamente contrario alle direttive impartite dal regime e sono stati valorizzati due antifascisti, Francesco Maratea e Arrigo Iacchia, quest'ultimo anche massone e segretariucolo di Claudio Treves”.
Quando si mordeva il freno sotto il regime liberticida, nella sua stanza al giornale si mettevano allegramente allo spiedo ministri e gerarchi. Mussolini lo detestava, ma tollerava la sua presenza al “Messaggero”, come quella clandestina di Missiroli. E a Galeazzo Ciano, quand'era Ministro degli Esteri e si trovava in difficoltà per qualche imbrogliata vicenda dei Balcani, suggeriva di rivolgersi a Maratea: “Chiamalo, sa tutto, può esserti d'aiuto”. E Ciano alzava il microfono e chiedeva lumi.
Alle notizie tratte dal fascicolo intestato a Maratea all'Archivio Centrale dello Stato, si può aggiungere che Galeazzo Ciano, informato delle discussioni e delle espressioni antitedesche che avvenivano nella stanza del giornalista, lo fece chiamare e gli disse che avrebbe dovuto farlo arrestare se, nei confronti della Germania, non l'avesse pensata esattamente allo stesso modo.
Alla macchina da scrivere di “don Ciccio”, come lo chiamavano affettuosamente i redattorelli dell'ultima covata, fu redatto da Pannunzio, quasi sotto dettatura, alle due del mattino, il “fondo” per la caduta del fascismo.
Si salvò dalle retate dei repubblichini il 3 maggio 1944, rimanendo nascosto a Vitorchiano nel fienile di un contadino. Non era, infatti, quel giorno, al “Messaggero”, quando le soldataglie di Gino Bardi, a seguito del famoso sciopero dei tipografi, dopo aver ripristinato l' “ordine” al Giornale, lo cercarono inutilmente nella sua abitazione all'Aventino, mettendola a soqquadro e distruggendo mobili, quadri preziosi e libri rari, raccolti in tanti anni di “mestieraccio”. Il proconsole della milizia, Franquinet, dovette accontentarsi di convocare la moglie a Palazzo Braschi, e di insultarla volgarmente.
Appare, “naturalmente”, con Alba De Cespedes, Sibilla Aleramo, Mario Soldati, Corrado Alvaro, Gaetano Afeltra, Vittorio Gorresio, Enrico Mattei, Antonio Baldini, Indro Montanelli, Giulio De Benedetti, Virgilio Lilli, Ercole Patti, Guido Piovene, Leonida Repaci, negli elenchi, diramati dalle Questure repubblichine, dei giornalisti radiati dagli albi nazionali per “indegnità, a causa del loro comportamento durante il periodo 25 luglio – 8 settembre 1943”, con l'invito a “tutti i quotidiani e periodici di qualunque specie, di non giovarsi, sotto qualsiasi forma, della loro collaborazione”.
In Via del Tritone, lavorò per circa cinquant'anni, frequentando i luoghi (particolarmente la Farnesina) che sono le fonti privilegiate delle informazioni politiche e gli ambienti diplomatici internazionali che più contano.
Viaggiò - come redattore “diplomatico” e inviato speciale - in lungo e in largo, riferendo ai lettori sulle più importanti conferenze internazionali: Ginevra fu una delle sue mete preferite, e al Palazzo delle Nazioni, che si specchia sul Lago Lemano, era come di casa.
Sul “Messaggero”, l'articolo di fondo di politica estera era quasi sempre suo e, nelle grandi occasioni, a lui venivano affidati anche argomenti estranei al settore, del quale, ormai, era considerato tra i più autorevoli specialisti europei.
Per due volte (1946 e 1952) gli fu offerta la direzione, ma se ne trasse indietro: “I direttori passano...” era solito ripetere ai colleghi che avevano “tifato” per lui.
Nei momenti più gravi e tumultuosi del dopoguerra, i direttori del Giornale – Missiroli prima, Sandro Perrone dopo – non hanno mai preso una decisione importante, senza entrare nella stanza al primo piano, dove Maratea teneva circolo. Bastava un “ci permettete?”, e restavano a quattr'occhi. Così sono nate le tante sottili polemiche al fioretto tra il “Messaggero” e l' “Osservatore Romano”.
Sorridendo, dopo gli scontri, riconosceva: “Io sono come don Sturzo: un cattolico laico”.
La sua carriera fu costellata di numerosi prestigiosi riconoscimenti, tra i quali la “Legione d'Onore” francese (1957), con decreto del Presidente di quella Repubblica, Renè Coty, e il primo Premio Saint Vincent (1965) “per una vita dedicata al giornalismo e per aver contribuito, con la sua attività, alla dignità della professione” (Montanelli si autosegnalò a Gianni Granzotto e Arturo Tofanelli, che erano nella giuria, ma lo ebbe solo l'anno successivo).
E quando il loro “esterista” smise di lavorare (1972), ineluttabilmente “pensionato”, i proprietari del “Messaggero”, i Perrone, di origine genovese (è tutto dire...), gli lasciarono a disposizione, fino all'ultimo giorno di vita, l'automobile e l'autista. E anche la sua “famosa” stanza, per molto tempo, rimase chiusa: occuparla subito, non sarebbe stato elegante.
(gelormini@affaritaliani.it)