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Ilva Taranto, la scelta coraggiosa (di A. Gelormini)
Questo articolo era stato pubblicato già il 19/8/2012, ma era scomparso dagli archivi dei motori di ricerca. L'ipotesi di "esproprio per colpa" dell'Ilva.
Questo articolo era stato pubblicato da Affaritaliani.it - Puglia già il 19 agosto 2012, ma ad un certo punto è scomparso dagli archivi dei motori di ricerca. Me ne sono accorto stamattina, volendolo correlare al pezzo di apertura sugli incontri a Roma al MISE, tenuti dal ministro Luigi Di Maio. Ritengo che riproporlo, nel momento in cui si torna a paventare la chisura dell'Ilva di Taranto, possa di nuovo aiutare e contribuire al "brain storming" sulle soluzioni per il futuro della città e una maggiore consapevolezza degli orizzonti possibili. (ag)
Taranto tira un sospiro di sollievo. Non troppo forte, però, perché il rilassamento potrebbe risultare fatale. La missione dei due ministri, inviati dal Presidente Monti, ha stemperato gli animi, assicurato la continuità di produzione all’Ilva, e garantito che l’acciaio sarà d’ora in poi temprato nel rispetto delle risoluzioni indicate dal Gip. La nuova vestale del fuoco sacro, acceso dalla scintilla “Costituzionale” dell’art. 41: “Coniugare il diritto al lavoro con quello alla salute”.
Sarà bene soffermarsi un po’ di più sulla lungimiranza dei Padri Costituenti nella scelta del verbo “coniugare”, quale trait d’union tra due diritti primari. Ovvero “fondere” in una sola carne la dignità fondamentale data dal lavoro, posta a base dell’assetto repubblicano dello Stato, col diritto inalienabile alla salute di ciascun uomo, nella sua accezione nobile di “persona”, prim’ancora che nel lignaggio civico di cittadino.
La città “bi-valve”, la culla di una combinazione binaria fattasi essenza identitaria, usuale nella sua quotidianità; la città bifronte, affacciata sui suoi due Mari, abituata allo sguardo largo lungo i riverberi speculari di un doppio orizzonte, da tempo vive la frustrazione di un’evanescenza. Di una vocazione tradizionalmente classica e umanistica, piegata alla declinazione pratica e accattivante di una riconversione industriale scintillante. Una sorta di luminescenza ammaliante, che lentamente ha visto spegnersi, nell’abbraccio velenoso dei suoi fumi, ogni riflesso di nobile bellezza. Legando inesorabilmente il proprio futuro al drammatico e angosciante dilemma: sopravvivere per vivere o vivere per sopravvivere?.
Hanno mandato due ministri a Taranto, tanto per rimanere in tema col destino binario e duale della città. In Prefettura, dopo avere incontrato tutte le parti in causa, hanno sostanzialmente recepito le indicazioni della magistratura, facendone “diktat portante” dell’autorizzazione governativa (Aia), che permetterà all’Ilva di lavorare.
“Se non le rispettano, dovranno chiudere”, è stato detto. Avverto disagio ed ho il forte timore dell’ennesima mela avvelenata. Perché non c’è coerenza nella consecutio dell’azione. Perché se fosse fondato il sospetto (più volte avanzato in questi giorni di diffidenza diffusa) di progetti di delocalizzazione e affini, perseguiti dalla proprietà dell’Ilva, il dispositivo sembrerebbe coniato per fornire l’appiglio giusto, a cui ancorare gli sforzi di una chiusura programmata.
L’impressione di aver “messo una pezza” a una situazione delicata e difficile, dalla tenuta dubbia e dalla consistenza piuttosto debole, potrebbe risultare alquanto allarmante. Di ben altro piglio, coraggio e determinazione ci sarebbe, invece, bisogno in questa Taranto provata, martoriata, mortificata e talvolta persino sbeffeggiata.
Dato il danno prodotto, dato il paradosso del “bene comune Ilva” (fonte di vita-lavoro, ma anche di morte e tumori), dato che sono ingenti ma non bastevoli i milioni di euro profusi dallo Stato, per far fronte ai disastri provocati da una negligenza accertata (e Dio non voglia “consapevole”), sarebbe forse più opportuno dire e ribadire, con fermezza: “Se non le rispettano, l’Ilva la perdono”.
Ben altra forza persuasiva, infatti, avrebbe un dispositivo che prevedesse, in coerenza con l’utilità pubblica del “bene comune Ilva”, una sorta di esproprio per colpa (in caso di persistente mancanza di rispetto delle indicazioni di salvaguardia ambientale), a tutela dei lavoratori, della città e dell’interesse nazionale.
Nonché quale indennizzo dei danni irreparabili alla salute delle persone e delle famiglie coinvolte, all’ambiente locale e in generale, ed alle sorti della stessa economia del Paese. Lo meriterebbero Taranto, la sua storia e la dignità antica dei suoi abitanti. Di cui, tra i fumi aspri delle ciminiere, s’intravede nuovamente il dolce, caratteristico e moderno piglio della sana intraprendenza.
(gelormini@gmail.com)