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In-croci di luce, dalla Via Crucis alla Via Lucis
Ai tempi del Coronavirus: il Preconio pasquale nel canto solenne dei patrimoni culturali di Puglia, attraversati dai raggi di luce della speranza a nuova vita
C’è un raggio di luce che fende trasversalmente tre croci sul Golgota Dauno, all’incrocio francigeno del Sud, nel rapimento romanico pugliese della Basilica Cattedrale di Troia.
E’ il raggio straziante, attratto dall’intensità espressiva del legno piagato e miracoloso del Crocifisso di Pietro Frasa, nel passaggio implorante e quasi smarrito del “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, efficacemente stigmatizzato da Benedetto XVI come “Il silenzio di Dio”.
E’ il raggio che irrompe con “la forza di una sciabolata”, attraversando una tela di Francesco Solimena - custodita nel locale Episcopio vanviteliano - per proiettarsi sull’austera drammatizzazione dell’Estasi di San Pietro d’Alcàntara, a cui appare il Crocifisso, nell’essenzialità di un confronto - che diventa dialogo senza voce - tra il frate dell’Estremadura, a cui l’artista ha dato i caratteri somatici del committente, e il Cristo in agonia.
E’ un raggio la cui intensità e gli effetti emotivi si esaltano nei riverberi di bellezza prodotti dal suo riflesso, quando abbraccia la raffinatezza policroma delle miniature benedettine, nei rotoli pergamenacei degli Exultet; che più di altri celebrano “la luce”, il cero pasquale e una ri-generante “Felix culpa”.
E’ il raggio che si irradia e si moltiplica nel filtro degli arabeschi calcarei del Rosone di quella Basilica: la Cattedrale più bella di tutta la Puglia. Il monumento insigne dove colpisce il contrasto fra rusticità ed eleganza, fra imponenza monumentale e squisita raffinatezza decorativa: dove “Colpisce e affascina l’uso sapiente della dismisura e dell’iperbole, per cui il magnifico Rosone traforato è incredibilmente grande e una specie di geniale asimmetria governa l’assemblaggio di motivi decorativi occidentali, bizantini, musulmani”. (A.Paolucci)
Per dimensioni, eleganza stilistica, slancio artistico e intensa e drammatica carica emotiva si direbbe che il Crocifisso del Frasa sia stato concepito, scolpito e realizzato proprio per la conca absidale, in cui oggi si ritrova. Per quello spazio "alto" così significativo nella chiesa: il compimento del percorso terreno del Cristo, che comincia dal Battesimo e si realizza nella redenzione dell'uomo attraverso il Supremo Sacrificio.
Questa la vera luce simbolica che avrebbe illuminato l’altare e le liturgie future. Questa la ragione per cui la finestra absidale, dietro di esso, venne chiusa. Essa, anche se mal orientata, avrebbe avuto ancora un senso se la Cattedrale fosse rimasta come fu inizialmente concepita. Ma con la successiva sopra-elevazione ‘gotica’ del soffitto a capriate lignee, la Basilica fu dotata appositamente di ben due Rosoni, il secondo più grande e più luminoso di quello principale (cosa inusuale nelle chiese romaniche). Per cui, la luce di quella prima finestra absidale - persa la funzione pratica - avrebbe conservato solo quella simbolica. Ma, nella simbologia di una Cattedrale non orientata, essa rimaneva del tutto "fuorviante". Meglio, allora, la luce fortemente simbolica ed essenziale dell’icona madre del cristianesimo.
Attento all'applicazione dei dettami del Concilio di Trento, Mons. Emilio Giacomo Cavalieri favorì le pratiche di culto e di adorazione legate ai sacramenti della Penitenza (o Confessione) e dell'Eucarestia. All'amore del Crocefisso, pertanto, decise di dedicare il Cappellone dei Santi Patroni della Cattedrale di Troia, con una pala d’altare commissionata al celebre pittore Francesco Solimena, accompagnata dalla Flagellazione e dalla Sollevazione in Croce dello stimato Francesco Trevisani. Ma l’arrivo in Diocesi del chierico-artista Pietro Frasa, lo stimolò a cogliere l’occasione per fargli scolpire un Crocifisso che si rivelò unico: nella drammatizzazione e nella suggestione compassionevole, che da allora non cessa di provocare.
I suoi successori ivi lo collocarono, ma la raffinata sensibilità artistica del Cavalieri non aveva immaginato che un siffatto capolavoro, anche per l’intima carica di catechesi che lo stesso presentava, potesse essere relegato in quella teca "inadatta" - persino nelle misure - nella Cappella dei Santi, in cui a lungo è rimasto nella sua inadeguata collocazione. Quella, infatti, non era la sua destinazione: bensì il posto della pala d'altare del Solimena con l'Estasi di San Pietro d'Alcantara a cui appare il Crocifisso, oggi custodita nel salone dell'Episcopio, insieme alla Flagellazione del Trevisani. Mentre perdute sembrano le tracce dell’altro elemento del trittico penitenziale collezionato e composto dal presule partenopeo: la Sollevazione in Croce.
Riscatto e rinascita sono, invece, cantati e celebrati nella luce della ‘Felix culpa’ in un passaggio dalla impressionante forza teologica, nell’unico punto di congiunzione delle due parti del rotolo pergamenaceo Exultet 3 di Troia, dove il Supremo Sacrificio (Redenzione) sulla Croce si innesta nella rappresentazione del Peccato Originale (Felix Culpa), rimandando al nuovo inizio segnato nella fede dai bagliori della Risurrezione, e nel sincretismo architettonico dai riverberi filtrati e proiettati dalla meraviglia arabescata ed ecumenica del Rosone della Cattedrale di Troia.
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