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Joe DiMaggio, stile e carattere
italiani nella cena lunga una vita

Tradotto e pubblicato anche in Italia il libro di Rock e John Positano, edito dalla salentina IQdB - I Quaderni del Bardo, con prefazione di Francis Ford Coppola

di Antonio V. Gelormini

L’impronta italiana nel DNA americano è qualcosa di insito sin dal primo momento che l’Occidente - ovvero il Vecchio Continente - ha preso coscienza della sua esistenza e ha cominciato ad averlo come orizzonte luminoso di una nuova frontiera: quella di un Nuovo Mondo


 

Da Cristoforo Colombo che vi approdò in cerca delle Indie e Amerigo Vespucci che ne battezzò il nome glorioso, fino a Robert De Niro, Silvester Stallone, Leonardo Di Caprio, Francis Ford Coppola e Frank Sinatra, ma anche a Liza Minnelli, Madonna e Lady Gaga, che ne hanno esaltato l’immagine più moderna.

Un vivace arco secolare, che ha visto passare Fiorello La Guardia, Antonio Meucci, Joe Petrosino, Franco Modigliani, Geraldine Ferraro, Nancy Pelosi, Frank Capra, Brian De Palma, Ralph De Palma, Al Pacino, Al Capone, Lee Iacocca, Joseph Tusiani, i fratelli Jacuzzi, John Travolta, John Turturro, Quentin Tarantino, Rodolfo Valentino, Dean Martin, Frank Zappa, Jack LaMotta. Per arrivare, infine, a Vince Lombardi, Rudolph Giuliani e Joe DiMaggio. Solo per citare alcune delle icone più famose.


 

Per cui, se il simbolo della Libertà e della Speranza - destinato a coronare sogni ed accoglienza degli immigrati di tutto il mondo - ha sempre avuto le radici francesi di Gustave Eiffel e Auguste Bartholdi, il mito italiano - a ben vedere - è andato oltre il pionerismo puritano della Mayflower e l’intraprendenza espansionistica degli olandesi della Nuova Amsterdam.

Joe DiMaggio, per il quale anche da noi in Italia la consapevolezza della sua forza attraente è cosa ancora poco radicata, è stato l’esponente più rappresentativo di quell’italianità fondamentalmente classica e per certi versi forse perduta, fino a diventare un modello senza tempo e senza confini per la comunità statunitense e non solo.


 

Il libro, finalmente tradotto e pubblicato anche in Italia “A cena con Joe DiMaggio - Memorie di un eroe italoamericano” scritto da Rock Positano e John Positano, edito da ‘I Quaderni del Bardo’ del salentino Stefano Donno, curato da Germana Valentini con la traduzione di Giovanna Ciracì, ci regala e restituisce lo stile e il carattere di un campione della storia del baseball internazionale, ma soprattutto di un eroe e di un esempio per generazioni di sportivi, uomini d’ogni età e cittadini americani.

Il diario del Doc (Rock Positano) e i ricordi di John Positano diventano una sorta di Registro di Bordo, per stigmatizzare le peculiarità di un italoamericano che è riuscito ad affermarsi oltreoceano come statunitense, come succederà ad eminenze del calibro del poeta Joseph Tusiani, dell’economista e Premio Nobel Franco Modigliani o del magnate dell’auto Lee Iacocca.

Poesia moderna pura il suo straordinario percorso agonistico, e non soltanto perché DiMaggio avrebbe fatto rima con Baggio o perché la vulnerabilità del suo tallone lo affiancava ad un eroe epico come il Pelìde Achille, ma soprattutto per essere salito nell’Olimpo dei campioni senza mai tagliare il cordone ombelicale con le sue umili radici, coltivando e curando una dignità integerrima, che gli consentiva di tener testa a qualsiasi antagonista: sia in campo che “fuori campo”.


 

Il libro dei Positano, con una narrazione tipicamente americana, riesce a garantire al lettore quel privilegio - abbastanza raro - dell’invito a cena con Joe DiMaggio, qualcosa che quando accadeva diventava consuetudine famigliare unica; dandogli la possibilità di capire e apprezzare come il talento può essere valorizzato, come esso può diventare un ‘brand’ da salvaguardare, come - abbinato a un sano stile di vita - può essere anche antidoto ai rischi di devianze e dipendenze, sempre in agguato nell’ambito della notorietà e degli agi della vita.

Ma soprattutto come soffrire il lacerante rapporto con il figlio Joe Jr. (avuto con la prima moglie Dorothy Arnold) e innamorarsi dell’icona universale: Marilyn Monroe, e poi riuscire a tener testa a ‘mostri sacri’ come la famiglia Kennedy o il carisma di Frank Sinatra, per difenderne in ogni momento - anche dopo i tragici eventi - affetto, memoria e fragilità, perché il loro amore fu autentico e inesauribile (nonostante il breve matrimonio): ricco di sofferta creatività e dignitosamente silenzioso, consapevoli fino alla fine dei limiti generazionali che il destino aveva loro riservato.

Un grande, che nel tirare le somme - a 85anni - ha avuto la forza di confrontarsi senza remore con sé stesso e con la mazza da baseball ben salda tra le mani,  riconoscere: “Ho vissuto per il gioco. Il gioco mi ha trattato bene. Ma il punto in cui sono arrivato, il punto più alto, era solitario” … “Nel corso degli anni ho creduto che non fossimo qui per essere amati, ma solo rispettati. Avevo molto rispetto, ma mi rendo conto che il rispetto spesso non è abbastanza” …  E con gli occhi pieni di nostalgia ammettere: “Dottore, avremmo dovuto aiutarci l’un l’altro. Marilyn, Frank e io abbiamo cercato di stare in piedi da soli. Non abbiamo fatto molto bene…”.

Buona lettura!

(gelormini@gmail.com)