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Maria Pia Romano, il libro
'Dimmi a che serve restare'
Sono due i fili che tengono insieme gli ultimi romanzi di Maria Pia Romano con la vena poetica della stessa autrice, che non perde la leggerezza elegante del sospiro letterario nell’affrontare le pareti aspre della prosa e le cataratte - a volta traditrici - della narrazione.
La forza della radice, più che il rigore della desinenza, e la declinazione subliminale di un tema: attraverso i vari aspetti che la quotidianità dell’esistere si preoccupa, di volta in volta, di assumere o di coinvolgere nelle emozioni provate e rivissute in ciascun personaggio immaginato.
L’Amore di “Onde di follia” (Besa), l’Anello de “L’anello inutile” (Besa), L’Attesa de “La cura dell’attesa” (Lupo) e l’Assenza in “Dimmi a che serve restare” (Il Grillo), l’ultimo lavoro della scrittrice salentina appena edito e distribuito in libreria, sono tutte testimonianze tipiche dell’essere donna e manifestazioni coraggiose di affrontare le prove impervie che la vita ci riserva, col coraggio e la tenacia sfoderati in maniera decisa, per difendere con piglio meridiano e spirito femminile quanto di più caro ci possa stare vicino.
Un percorso che è gioco di sponda negli sguardi a pilastri della letteratura italiana, come Dante, Petrarca, Leopardi ed ora Foscolo, che in quest’ultimo lavoro - insieme agli altri - trova una sorta di sintesi nell’adagio con forza di Salvatore Quasimodo: “Sono ancora qui, / il sole gira alle spalle / come un falco / e la terra ripete / la mia voce nella tua”.
Un canto che continua a salire dal Salento, questa volta - più che altre - sulle note e nei versi dei Negramaro, che restano la vera colonna sonora di un romanzo: dove il silenzio forzato di un’assenza diventa armonia di ricordi, emozioni, sensazioni, nostalgie, gelosie, orgoglio, rassegnazione e riscatto, per un vero e proprio concerto da camera - a più voci - per la vita.
Un figlio che idealizza l’assenza. Un padre che preferisce insegnare il coraggio, più che la prudenza. Il padre d’un padre di un figlio che riesce a vedere il colore delle nuvole e quello delle lacrime. Una moglie incapace di reagire al dolore, fino a quando il balsamo del tempo non riuscirà a scioglierlo in un sorriso liberatorio. La compagna di una vita, che nasconde le lacrime sott’acqua, ma resta la “bitta” a cui ancorare le fragilità altrui.
Personaggi, sentimenti e situazioni che, nello sciabordio di una narrazione di estate in estate, rinnovano l’esercizio in altalena di ogni scrittore: raccontare raccontandosi o, viceversa, raccontarsi raccontando. Per raccogliere la sfida e non restare eccellenza “imbrigliata” negli 88 toni di una tastiera, ma di usare le potenzialità di questo “doppio infinito” come ali, per volare nell’assoluto senza tempo e senza spazio della libertà senza confini.
“I libri sono uomini”, dice Tiziana - una dei protagonisti del romanzo di Maria Pia Romano - a cui Paolo aveva però ricordato, come aveva fatto anche a suo figlio Giovanni, che: “I libri sono dei piccoli viaggi”. Sarà anche per questo che, richiudendo il libro a fine lettura, ci si accorge che l’interrogativo - in realtà - si scioglie nell’imperativo, per esorcizzare la rassegnazione: “Dimmi a che serve restare”.
(gelormini@affaritaliani.it)