Marolla scatti metropolitani
Curiosità per professione
La mostra di Michele Marolla approda a Bisceglie dopo il Museo Civico di Bari e il tour a Gioia del Colle e Giovinazzo
di Alessandra Nenna
Nell’immaginario favolistico una fotografia potrebbe essere una storia vittima di un incantesimo che le ha sottratto le parole lasciandole pochi elementi visivi per descriversi. Ed è forse questo che spiega perché in una fotografia, immediata e tangibile, i limiti del mondo che inquadra sono al pari importanti di tutto ciò che esclude. Chissà che non nasca anche da questo, dalla volontà di restituire le parole alle storie catturate, la personale fotografica Diario. Luoghi, persone, storie di Michele Marolla, in tour per la Puglia.
“Ho iniziato a diciotto anni, fotografando e scrivendo - dice lo storico giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno - poi la vita si sa, offre alcune direzioni e le strade divergono”.
Una seconda passione che tuttavia si è alimentata in parallelo, dotandosi di numerose compagne di viaggio, ben 15 macchine fotografiche “tutte funzionanti", che hanno documentato la sua attività di fotoamatore, ma soprattutto le evoluzioni, salutate con entusiasmo, dalla pellicola al digitale, dalla storica Lubitel 2 del 1973, alla Kodak 66 II a soffietto, una Rollei 35B che potrebbero forse essere esposte nelle tappe della mostra a Gioia del Colle, (nel Chiostro del Comune); a Giovinazzo e a Bisceglie.
Quaranta fotografie salvate da un vastissimo archivio che tiene conto dei soli ultimi dieci anni e che predilige, nella descrizione dell’autore, il cielo e il mare. Il percorso si apre infatti con uno scatto che Marolla spiega essere stato ripreso sulla costa belga, sul tetto del casinò di Ostenda: l’installazione di un astronauta che, come un maestro d’orchestra, dirige la distesa d’acqua salata che gli si apre immensa davanti. Da sapiente artigiano delle parole gioca con le figure retoriche per creare didascalie curiose atte a creare un sottotesto o una meta-storia: un ombrellone giallo in mezzo a una distesa di altri verdi diventa “il giallo dell’estate”, gli schizzi di un’onda che si infrangono sugli scogli simili a una coltre spinosa meritano il titolo di “Non c’è mare senza spine”.
Il cielo, il mare e tutto quel che sta nel mezzo. Sono molte di più le storie che emergono, alcune, frammenti di luoghi che non esistono più come il groviglio di lucchetti di mocciana memoria sul lungomare di Giovinazzo (confida l’autore), l’amoreggiare di due tortore e infine l’incomunicabilità vissuta a ridosso di una panchina, scorcio di vita altrui che, nella totale incoscienza dei soggetti ritratti diventa, suo malgrado, messaggio.
Se si chiede a Michele Marolla, quali elementi devono concorrere perché una porzione di mondo venga scelta per essere immortalata, la risposta è immediata: “Quasi mai c’è qualcosa di premeditato. A volte è la suggestione di un momento, un particolare inaspettato che si presenta, o dettagli che si accumulano nell’ora del giorno che preferisco, per esempio: l’ora blu, quando il sole è calato, ma non è ancora completamente buio e le luci delle strade iniziano ad accendersi una dopo l’altra. È la volontà di provare a trattenere quel piacere il più a lungo possibile. Mi piace tuttavia - sottolinea Marolla - che ognuno ci trovi l’associazione a un proprio mondo esperienziale e che la foto continui a raccontarsi da sola. Ecco perché ho preferito non indicare i luoghi, salvo quelli che possono desumersi da dettagli espliciti”.
Eppure visitando la mostra si ha la sensazione che ogni foto chiami per essere ascoltata rivelando qualcosa di più, forse una ricerca insistita, paga solo della prospettiva ultima, di una messa a fuoco dello sguardo che perlustra l’inosservato e che soprattutto, tacendo nella consapevolezza di non poter essere parola, sia divenuta altro. Non solo dunque una riuscita operazione estetica, ma qualcosa che prova a dare movimento all’originaria staticità, “E che si ottiene - spiega ancora Marolla - rallentando il tempo di esposizione”. È il caso di alcun immagini scatti che la didascalia riconduce a fuochi d’artificio, ma che potrebbero senz’altro essere pianeti di un’altra galassia o giochi di luce di una discoteca notturna. Le luci si deframmentano e appaiono simili a filamenti che si muovono nel buio lasciando una scia come le comete.
Ed è solo tornando alla foto iniziale, indugiando sul balconcino del Museo, che affaccia sul borgo antico, che si comprende di essere all’interno di una cornice naturale, in cui ogni dettaglio è stato rigorosamente curato: dal catalogo (edito Gelsorosso) ai supporti delle foto di spessore superiore alla norma, affinché le stampe, esclusivamente su carta fotografica, potessero creare una percezione quasi tridimensionale. Scatti che hanno ritrovato le parole. L’incantesimo si è rotto.