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Salento, i mesci e
mescie di una volta

Rocco Boccadamo

Non so se succeda anche a voi, a me capita, talora, di essere interpellato da qualche sconosciuto, magari un automobilista che s’accosta lentamente col suo mezzo a finestrino dischiuso, con la frase: “Maestro, sa dirmi a che numero civico si trova….?” Oppure: “Maestro, è da queste parti la Direzione Provinciale….?”

Ora, il semplice risuonare dell’accezione “maestro”, è più forte di me, mi fa restare sistematicamente impietrito e la prima puntuale reazione che ho è di fiondare intensamente lo sguardo sulle sembianze dell’interlocutore, come a volerle dissolvere, replicando secco con parole che sono sempre le stesse: “Guardi, non mi dica maestro, giacché non so neppure avvitare una lampadina”.

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Segue, naturalmente, un piccolo ma percettibile sussulto sul volto dell’altro/altra, anche se, poi, l’informazione, almeno quando è nota, è fornita senza problemi e la scena, diciamo così, si ricompone.

Queste, invero non frequenti, circostanze, mi danno, di riflesso, l’estro per richiamare alla mente, con emozione e un po’ di nostalgia, una serie di persone/personaggi del paesello natio d’un tempo, i cui nomi di battesimo erano immancabilmente preceduti, quasi da formare un tutt’uno, dal titolo o qualifica, giustappunto, di maestro (nell’idioma dialettale, mesciu o mescia a seconda del sesso), titolo che, a loro, sì che competeva davvero.

Lunga, la rassegna di tali protagonisti in una comunità di circa duemila anime, soggetti tanto bravi quanto umili e, perciò, apprezzati e stimati.

Dai calzolai o ciabattini o scarpari, mesciu Tore, mesciu Roccu, mesciu Leriu e mesciu Narducciu, l’ultimo, per la precisione, subentrato allo zio Rocco, dopo esserne stato “discepolo” e aver appreso il mestiere.

Pochi i ricordi inerenti al primo artigiano, già vecchissimo all’epoca della mia infanzia, relativamente a lui, rivedo, più che altro, una figura femminile, sorella o moglie non so più bene, affetta da sonnambulismo, vagante, anche fuori dall’uscio di casa, avvolta in una lunga camicia da notte bianca, alla stregua di fantasma, un fantasma, però, dall’animo buono, secondo la suggestione del giovanissimo testimone.

Quanto a mesciu Roccu, invece, a distanza di ben oltre mezzo secolo, sono tuttora nitidi due tristi eventi che l’uomo ebbe a dovere affrontare e patire: la tragica morte del figlioletto Antonio, non ancora scolaro, perito sotto le ruote di un camion militare, per la precisione del drappello di soldati polacchi che, in quel periodo, si trovava di stanza a Marittima, e, poco tempo dopo, anche la prematura dipartita della moglie.

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Il terzo calzolaio, mesciu Leriu, da parte sua, si distingueva, oltre che per la maestria nel lavoro, per la circostanza d’intrattenere e gestire, in seno alla propria bottega, intorno al desco, sia all’interno che, durante la bella stagione, fuori dal locale, una sorta di salotto o agorà: su sgabelli e vecchie sedie impagliate, intorno al tavolo, s’accomodavano, ogni giorno, tre – quattro compaesani, di varie età.

E s’inanellavano discorsi, commenti, confidenze, notizie, informazioni, una semplice e sana formula di comunione civica.

Passando ad una differente categoria artigianale, ecco mesciu Primaldu, sarto, originario di Castro.

E’, poi, la volta dei muratori: mesciu Vitali, mesciu Adolfu, mesciu Carlucciu e mescio Pippinu.     

Della lista, il primo, vero e proprio capomastro, figura minuta ed esile, aveva per moglie una cugina di mio padre con la quale aveva procreato ben nove figli. Un paio dei maschi più grandi, per qualche tempo, gli diedero una mano, affiancando altre unità di compaesani collaboratori, alcuni addetti alla squadratura dei tufi o conci, i restanti, denominati manipoli, adibiti al carico, sulle spalle, dei materiali e al relativo trasporto, con l’uso, al caso, di scale, sino alla sommità dei muri perimetrali e delle volte, man mano che le costruzioni avanzavano.

Di mesciu Carlucciu, piace ricordare che era un autentico artista, più che artigiano, nel lavoro di cesellatura dei particolari degli edifici, specie delle cornici e dei decori in pietra leccese.

Si arriva, a questo punto, ai falegnami mesciu ‘Mmbertu e mesciu Pippi, operatori dotati, anch’essi, di elevata professionalità, giacché, secondo le abitudini paesane della metà del secolo scorso, erano chiamati a realizzare non soltanto infissi esterni e interni, bensì pure arredamenti completi, sia per ambienti giorno, sia per cucine, sia per i vani notte.

Ultima figura d’artigiano, sfocata per via della vetustà, quella di mesciu Biasi, che, rammento, aveva una piccola bottega nell’androne del palazzotto Spagnolo, adiacente al Largo Campurra; di lui, tuttavia, sembrerà strano, non ricordo più quale fosse esattamente il lavoro, la specializzazione.

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In omaggio alla parità di sesso, sebbene, allora, approssimativa, resta da dire che la comunità marittimese di ieri con includeva unicamente figure di mesci, ma alcuni casi omologhi di sesso femminile, ossia di mescie.

Tra esse, mescia Nina e mescia Clementina, le quali attendevano a lavori di cucito e di maglieria.

E, ultime ma, di certo, non meno speciali, le quattro mescie degli altrettanti magazzini (o manifatture) per la lavorazione del tabacco, che, una volta, operavano nella minuscola località: Valeria, Anna, Margherita e Teresina.

Personaggi utili, quasi preziosi, sia nel ruolo di fiduciarie dei proprietari degli opifici, sia per il loro compito di coordinare, guidare e seguire l’attività, ciascheduna, di cinquanta/sessanta lavoratrici e, soprattutto, essendo loro chiamate a insegnare il mestiere alle ragazze e giovani ammesse per la prima volta nei magazzini.

Piccolo dettaglio, che, ad ogni modo, non sminuisce le figure delle citate quattro donne, Valeria, Anna, Margherita e Teresina si chiamavano semplicemente con i rispettivi nomi di battesimo, nomi, quindi, non anticipati, come si verificava riguardo agli altri artigiani/mesci, dal prefisso mescia.

Insomma, anche se non definite verbalmente, erano mescie, e come!, nella realtà concreta.