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Sfruttamento del lavoro, Palmisano: 'La legge anti-caporalato non basta'

La più importante norma internazionale contro lo sfruttamento del lavoro non è ancora stata ratificata in Italia. Ne parlano Palmisano, Barbaro e Brignone.

di Carlo Ladd *

La più importante norma internazionale contro lo sfruttamento del lavoro non è ancora stata ratificata in Italia. E secondo gli studiosi e gli attivisti che monitorano le condizioni lavorative nel nostro Paese, la sua necessità è urgente. 

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Il Protocollo n. 29 (2014) relativo alla Convenzione sul lavoro forzato del 1930 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) apporta modifiche importanti al suo documento di origine, adattandolo a un mondo che è cambiato parecchio in novant’anni. Il protocollo si focalizza in particolare sulla prevenzione e la protezione delle vittime, soprattutto quelle migranti, prendendo in considerazione il carattere sempre più globalizzato del lavoro forzato e della tratta di esseri umani che ne approfitta.

È citato da molti esperti come il più completo strumento internazionale contro il lavoro forzato; tra gli italiani che lo sostengono ci sono l’autore e ricercatore pugliese Leonardo Palmisano, la giornalista-attivista Emma Barbaro, e l’attivista e esperta di politica europea Rosa Brignone, che abbiamo intervistato.

Equal Diversity Brignone

“Il carattere innovativo del Protocollo - sostiene Brignone - consiste nel portare avanti una strategia articolata su tre livelli necessari e interdipendenti: prevenzione, protezione delle vittime, e sanzioni nei confronti dei colpevoli. Eppure, in genere in Italia del Protocollo non se ne parla".

"Sono molti i paesi al mondo che non hanno ancora ratificato il Protocollo n. 29 - fa rilevare Brignone - ma tra i nostri alleati più stretti siamo quasi gli ultimi. Una decisione del Consiglio dell'Unione Europea  invitò nel 2016 gli stati membri a ratificarlo entro la fine dell’anno, e in molti l’hanno già fatto. Ma con la ratifica imminente del Lussemburgo, l’Italia rischia di diventare l’ultimo paese fondatore dell’Unione a non avere ancora aderito al Protocollo".

Emma Barbaro

Secondo Emma Barbaro, che dirige il periodico Terra di frontiera, il Protocollo è così poco conosciuto che persino molti esperti del campo non lo conoscono: “Io che mi occupo di queste tematiche mi sono trovata, a un certo punto, a scoprire della sua esistenza. Ed è stato stranissimo. Nessuno di noi ne era a conoscenza. Assolutamente nessuno”.

Perché questo documento non è minimamente conosciuto in Italia? Il lavoro forzato è forse già stato sradicato, e non serve? Proprio per niente: anzi, dalla crisi del 2008 a oggi il fenomeno è stato in continuo aumento. La forma più diffusa di sfruttamento in Italia, il caporalato, è in tutti gli aspetti un tipo di lavoro forzato, anche secondo gli indicatori della OIL. Un tipo particolare di caporalato, quello che macchia il settore agricolo in Sud Italia, è già molto conosciuto; infatti, l’unico grande passo in avanti recente al livello nazionale contro il lavoro forzato è stata la creazione della legge 199 del 2016, che ha definito per la prima volta il caporalato come reato.

Ma secondo Rosa Brignone, attivista e direttrice dell’organizzazione Time for Equality, la legge ‘anticaporalato’ ha dato all’Italia l’impressione erronea che il problema sia stato risolto: “Nei nostri tentativi di promozione del Protocollo in Italia, noi a Time for Equality ci siamo confrontati più volte con la convinzione diffusa che la legge 'anticaporalato' lo rende inutile”.

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Pur essendo una parte indispensabile della lotta al lavoro forzato in Italia, la legge di per sé stessa non basta. Non basta perché si limita a creare sanzioni penali, e non, come prevede il Protocollo, a cambiare i rapporti di forza tra domanda e offerta di lavoro e ad affrontare le cause alla radice della vulnerabilità allo sfruttamento. Colpisce gli ultimi anelli della catena di sfruttamento, quindi, senza andare oltre. “Pur essendo una legge che parte dal lavoro, non arriva al lavoro,” sostiene Leonardo Palmisano, sociologo, autore, e vincitore del Premio Colombe d’oro per la Pace.

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La legge non basta, inoltre, perché non cambia fondamentalmente la posizione estremamente vulnerabile del lavoratore straniero nel nostro Paese. Lo sfruttamento del lavoro in Italia, come dice Palmisano, “Si nutre della legge Bossi-Fini, che abbassa le tutele del migrante se non ha un contratto di lavoro e quindi lo rende oggettivamente ricattabile”. La regolarizzazione che è stata promossa quest’anno per via della crisi sanitaria non ha cambiato questo fatto, poiché è stata secondo molti esperti - inclusi Barbaro e Palmisano - un fallimento. Il Protocollo n. 29, invece, sul tema dei migranti è chiaro: le vittime di lavoro forzato devono essere tutelate, a prescindere dal loro status legale. E per l’Italia, primo punto di sbarco per moltissimi migranti e rifugiati dall’Africa, è particolarmente importante sostenere i più elevati standard internazionali di protezione contro lo sfruttamento.

Ma la legge ‘anticaporalato’ non basta anche perché - ed è forse questo che può servire di più ad allertare gli italiani - il lavoro forzato in Italia è un problema molto più ampio di quello dei braccianti al sud. Secondo Palmisano, i sistemi di caporalato non solo si sono rafforzati negli anni dopo la crisi del 2008, ma si sono estesi e trasformati: “Siamo passati da un controllo attraverso caporali - in un decennio da quando è esplosa la crisi - a un controllo criminale di stampo mafioso”; proprio quest’ultimo è il tema del suo libro Mafia Caporale.

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Vari cambiamenti sociopolitici - tra i quali il declino dei centri per l’impiego, la frantumazione delle grandi agenzie di lavoro interinale in agenzie sempre più piccole, e una crescita sfrenata del numero di sindacati - hanno permesso sempre di più, con l’aumento della povertà dopo la crisi, il trasferimento del potere ai sistemi criminali. E questi sistemi criminali non si limitano al settore agricolo, ma toccano i servizi, i trasporti, il magazzinaggio, persino il giornalismo. Quindi il lavoro forzato non si limita neanche agli stranieri, e spesso non si tratta di lavoro a nero ma di lavoratori assunti legittimamente e poi sfruttati.

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C’è un chiaro bisogno del Protocollo: di uno stimolo nuovo per portare avanti la lotta contro il lavoro forzato in Italia. Basta leggere attentamente i giornali, per capire che la situazione è grave: le baraccopoli con condizioni di vita atroci, le morti tragiche di braccianti migranti al Sud, queste realtà sono diventati oggetto di cronaca anche di recente, come per esempio il caso di Adnan Siddique, bracciante pachistano morto accoltellato in Sicilia a giugno. Ma in moltissimi non ci rendiamo conto che queste storie sono la punta dell’iceberg, e che per ogni vittima di alto profilo ce ne sono dozzine che soffrono di nascosto: secondo il Global Slavery Index sono circa 145,000 le vittime di schiavitù moderna in Italia.

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“[Il Protocollo] potrebbe essere un modo per arricchire il panorama sulla legge ‘anticaporalato’ e quindi già per fare comprendere che il caporalato non è soltanto un problema dell’agricoltura” - dice Barbaro - e che, accanto all’aspetto sanzionatorio, serve in realtà l’aspetto della prevenzione”.

Ed è proprio la prevenzione, infatti, che manca in Italia, iniziando dall’opinione pubblica. La sensibilizzazione al problema del lavoro forzato, punto chiave del Protocollo, è un urgente bisogno. “[Il Protocollo] in Italia può servire finalmente a far tornare centrale nel dibattito pubblico il tema del lavoro e dei lavori, in un paese che ne ha bisogno - sottolinea Palmisano - se c’è necessità di capire che il lavoro forzato in Italia non si svolge solo nei campi e le baraccopoli al Sud, c’è anche bisogno di affrontare il razzismo che permette agli italiani di ignorare un problema che secondo loro non li riguarda. La legge contro in caporalato, di fatti, è stata creata solo dopo che è morta una bracciante italiana, Paola Clemente, al lavoro in un campo in Puglia".

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Dal pubblico si passa all’ambito politico e giuridico. Il Protocollo, in fondo, non è di per sé una legge, ma in quanto trattato internazionale ha un importantissimo valore simbolico che lo rende un catalizzatore di cambiamenti sociali e politici. Può vincolare la classe politica italiana ad un nuovo punto di riferimento e quindi stimolare riforme non solo ai diritti lavorativi, ma a tutte le norme – per esempio la legge Bossi-Fini – che creano condizioni di vulnerabilità allo sfruttamento: “Questo potrebbe essere lo strumento attraverso cui si elimina la differenza [tra gli italiani e i migranti - afferma Barbaro - il punto fondamentale non è sapere se io sono italiano o sono migrante. Il punto fondamentale è rimettere al centro la dignità del lavoro”.

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Con il recente festeggiamento del settantacinquesimo anniversario delle Nazioni Unite, molti governi, guardando oltre la pandemia, stanno rafforzando i loro impegni a perseguire gli Obiettivi di sviluppo globale. L’Italia, ospite di diverse sedi dell’ONU e delle sue agenzie, è sempre stata un forte sostenitore del multilateralismo e delle norme internazionali.

Lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione dell'anniversario, ha detto che: “La Repubblica Italiana è orgogliosa di aver fornito il suo contributo [all’ONU], in coerenza con i valori della sua Costituzione.” Adesso è ora di riflettere questi valori anche nell’ambito del lavoro, e ratificare il Protocollo n.29.

* Responsabile difesa a Freedom United e comunicazioni alla United Nations Association of New York - http://www.freedomunited.org/advocate/forced-labour