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Trifone Gargano: Dante e il fascino della Matematica

Anche Affaritaliani.it - Puglia ha deciso di celebrare i 700anni dalla morte di Dante Alighieri, dedicando ogni week-end questo spazio per la pubblicazione di lavori ad opera di dantisti pugliesi o di autori, i cui articoli sono ispirati all’influenza del Somma Poeta sulla realtà pugliese in particolare o quella italiana in generale.

Trifone GARGANO Aracne

Esordio in accoppiata con Mina, poi riflettori accesi su Netflix con la fiction di successo con Sabrina, e incursioni ne "La casa di Jack" di Lars von Trier; quindi l'incontro con Harry Potter nella saga di Joaanne K. Rowling; l'avventura tra i twitter fulminanti delle terzine di dantesca memoria e l'esplorazione dell'influenza del Sommo Poeta nella prosa contemporanea. E dopo l'incursione dantesca nel mondo del giallo e l'approdo in Sicilia negli intrighi di Nino Motta, il viaggio si è dipanato tra le pagine dei libri di Eraldo Affinati e Giulio Ferroni, con la successiva polemica letteraria accesa da Arno Widmann. Per toccare poi la funzione di "Bussola" de La Divina Commedia per un romanzo di Marco Balzano, l'esame su Nick Tosches e "La mano di Dante"; continuando tra le pagine di "Inferno" il successo editoriale di Dan Brown; fino ad intruflarsi tra coloro che fecero violenza a se stessi (suicidi).

La rassegna di Trifone Gargano (Pugliese, Docente Didattica Lingua Italiane e Informatica per la Letteratura, nonché dantista e divulgatore letterario) continua nel labirinto suggestivo della matematica. (ag)

Nobile castello

di Trifone Gargano

Non ci si può accostare alla lettura della Divina Commedia senza mettere in conto di dover chiarire, preliminarmente, i rapporti tra Dante e la Matematica, a cominciare da quello più immediato e riconoscibile, e cioè il rapporto tra l’1 e il 3 (unità e trinità, passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva). Sul rapporto tra l’1 e il 3, com’è noto, è costruito l’intero poema dantesco. Si pensi pure al numero 11, che è il numero del verso endecasillabo utilizzato da Dante, frutto dell’unione di due emistichi dispari (7 + 5; oppure, al contrario, 5 + 7), con tutto ciò che questa unione produce, in termini di varietà del ritmo e, quindi, di armonia.

Qui, comunque, mi limiterò a dare qualche consiglio di lettura, suggerendo il testo di Bruno D’Amore "Più che ‘l doppiar de li scacchi s’immilla", Pitagora Editrice, Bologna 2001 come primo approccio, scientifico ma anche divulgativo, al grande (e affascinante) tema del ruolo del numero all’interno della Divina Commedia. Chi vorrà, potrà approfondire con studi e con saggi più specifici (anche recenti), su quella che oggi viene definita come la "poetica numerologica" di Dante. Ovviamente, la bibliografia critica esistente è sterminata (e di qualità).

D Amore cop 01

Tra i "maestri" di questo indirizzo di ricerca, per ragioni di sintesi, ma anche per ragioni affettive, rinvio soltanto a Gian Roberto Sarolli, che è stato docente, in alcuni anni, presso l’ateneo barese: Prolegomeni alla Divina Commedia, Olschki, Firenze 1971; e poi, Analitica della Divina Commedia. Struttura numerologica e poesia, Adriatica Editrice, Bari 1974. Preciso, infine, che Dante colloca Euclide nel Limbo, tra gli spiriti magni del Nobile Castello («Euclide geomètra», If IV, 142), padre della geometria.

Il libro di Bruno D’Amore è un saggio sugli incontri di Dante con la matematica. L’autore, docente di Didattica della Matematica presso l’ateneo bolognese, illustre conferenziere e grande divulgatore scientifico, ha pensato bene di dare al suo saggio una veste narrativa, per garantirne cioè una larga circolazione, al di fuori della ristretta cerchia dei lettori specialisti. Gli incontri di Dante con la matematica, infatti, vengono presentati sotto forma di racconti. D’Amore ha rintracciato nella Divina Commedia tutti quei loci nei quali Dante incrocia la matematica, in diverse modalità: 

Sole corona

- dalle citazioni dei teoremi

- a quelle relative alle figure geometriche

- fino ai riferimenti ai calcoli matematici veri e propri.

La ricerca di Bruno D’Amore è organizzata intorno a tre sfere d’interesse:

1. aritmetica e probabilità

2. logica formale

3. geometria

Per il primo ambito di interesse, D’Amore fa notare che la formazione di Dante, dopo il 1290, si era concentrata, tra le altre cose, nella lettura e nello studio di Severino Boezio, che non fu noto solo per aver scritto il De consolatione philosophiae, ma anche come apprezzato autore di pregevoli trattati di geometria e di aritmetica. Dante dialogherà con Boezio in Pd X, 125-129, tra i sapienti del cielo del Sole.

Partendo dall’interrogativo su «quale e quanta» aritmetica conoscesse Dante, tra riscontri testuali e congetture sulla formazione di Dante, D’Amore suggerisce di rileggere un gruppo di terzine, per rintracciare i riferimenti all’aritmetica:

- Pd XV, 55-7:

Tu credi che a me tuo pensier mei

da quel ch’è primo, così come raia

da l’un, se si conosce, il cinque e ‘l sei

Sono le parole di Cacciaguida, pronunciate nel primo dei tre canti a lui dedicati nel Paradiso, che potremmo così interpretare: partendo dall’unità, possiamo facilmente raggiungere qualsiasi altro numero. Dopo questa citazione, l’attenzione di D’Amore si concentra su di un passo di Pd XXVIII, 91-3, ch’egli giudica di gran lunga più interessante, come riferimento aritmetico:

L’incendio suo seguiva ogni scintilla;

ed eran tante, che ‘l numero loro

più che ‘l doppiar delli scacchi s’inmilla.

scacchiera 01

Il discorso di Dante, in questa parte del canto XXVIII, com’è noto, riguarda il numero degli angeli che nascono, con la precisazione che gli angeli non vanno contati a uno a uno, bensì a mille a mille. Il poeta, infatti, sostiene che il numero degli angeli supera perfino «’l doppiar delli scacchi». Il riferimento è alla notissima leggenda di Sissa Nassir, inventore del gioco degli scacchi. La leggenda narra che Sissa chiese al re di Persia, come ricompensa, per l’invenzione del gioco degli scacchi, qualcosa che, all’inizio, il sovrano giudicò piuttosto modesta. Facendo riferimento a una scacchiera 8 x 8, infatti, Sissa chiese al re un chicco di riso (o di grano) per la prima casella; 2 chicchi per la seconda; 4 per la terza; 8 per la quarta; e così via, doppiando, appunto, di casella in casella, il numero dei chicchi.

Insomma, per la sessantaquattresima casella, Sissa Nassir chiedeva al suo re un numero spropositato (e illeggibile) di chicchi di riso (o di grano), e cioè: 18.446.744.073.709551.615

In italiano, potremmo leggerlo così: 18 miliardi di miliardi, 446 milioni di miliardi, 744 milioni di milioni, 73 miliardi, 709 milioni, 551 mila e 615 di chicchi.

Questo numero, secondo Dante, darebbe in termini riduttivi una certa idea del numero degli angeli nascenti, che, invece, si «inmillano», più che «doppiarsi».

Quando il re di Persia si rese conto della effettiva richiesta di Sissa Nassir, che inizialmente aveva giudicato come modesta, diede ordine di decapitarlo, con l’accusa di alto tradimento.

Pur evitando di sconfinare nella numerologia, per sua esplicita dichiarazione, Bruno D’Amore cita comunque il caso di Pg XXXIII, 43:

                        nel quale un cinquecento diece e cinque

che, com’è noto, è un verso sul quale fiumi di inchiostro sono stati versati, per avanzare le più diverse interpretazioni. Verso ancora oggi dibattutissimo. Seguendo D’Amore, mi limito a notare che se il numero in questione (515) lo trascrivessimo utilizzando il sistema romano, universalmente diffuso al tempo di Dante, avremmo DXV. Taluni hanno pensato che si tratti di un anagramma, proponendo, come suo scioglimento, la parola «DUX». Altri, invece, hanno pensato a un monogramma, che, allora, starebbe per «Domini Xristi Vergatus» (cioè, farebbe riferimento al Veltro); oppure, starebbe per «Domini Xristi Vicarius» (con riferimento, in questa seconda ipotesi, al papa).

Per la seconda linea di ricerca, quella relativa alla logica formale, D’Amore si concentra sui versi inziali di Pg, VI, 1-3:

                                               Quando si parte il gioco della zara,

                                               colui che perde si riman dolente,

                                               repetendo le volte, e tristo impara

La «zara» era un gioco d’azzardo medievale. Il giocatore, utilizzando tre dadi, chiamava un numero, da 3 a 18, e, quindi, lanciava i dadi. Vinceva colui che, per primo, otteneva il numero chiamato. È facile intuire che, rispettivamente, il numero 3, e il numero 18, avessero bassissime probabilità di uscire, in quanto, in entrambi i casi, sarebbe stato necessario ipotizzare che tutti e tre i dadi avessero avuto come esito, nel primo caso, 1 (per un totale di 3); nel secondo caso, 6 (per un totale di 18). Al contrario, i numeri centrali, come il 10, o l’11, sempre in termini probabilistici, avevano maggiori chance. Di conseguenza, dal 4 al 9, le percentuali delle probabilità di successo crescevano; dal 12 al 18, invece, diminuivano.

Dante apre il canto VI del Purgatorio proprio con il riferimento a questo gioco:

zara dadi ME 00
 

"Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

con l'altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;

el non s'arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende."

[vv. 1-9]

[Quando si conclude il gioco della zara [con i giocatori che abbandonano il tavolo da gioco], colui che perde resta amareggiato, ripetendo le giocate [i tiri dei dadi], e, deluso, impara [per poter vincere in futuro]; gli spettatori [tifosi] se ne vanno con il vincitore; chi gli cammina davanti, e chi lo afferra da dietro, chi, mettendosi di fianco, si fa notare; ma egli non si ferma e ascolta ora l’uno, ora l’altro; colui al quale [egli] porge la mano, non fa più ressa; e così si difende dalla calca].

Secondo balzo dell’anti-Purgatorio, ripido pendio roccioso, con le anime di coloro che si sono ravveduti in punto di morte (terza schiera dei negligenti: morti di morte violenta). Costoro, come in vita, tardarono a pentirsi, attendendo il momento estremo della morte (violenta), adesso, camminano in schiera, cantando il salmo 51 (Miserere), e implorando la misericordia divina. Il canto, dunque, si apre con una similitudine, che fa riferimento, appunto, al gioco della zara, precisamente, al momento finale di una partita, con la folla dei tifosi che attornia il vincitore, lasciando, invece, solo e in disparte, il perdente. Dante, che, evidentemente, ben conosceva tale gioco, dice di procedere, tra quelle anime purganti, alla stessa maniera, e cioè attorniato da una folla postulante: «Tal era io in quella turba spessa», v. 10. Le anime, in ressa, rivolgono a Dante diverse richieste, e lui, promettendo a ciascuno di soddisfare le rispettive preghiere, si libera dalla pressione: «promettendo mi sciogliea da essa», v. 12.

Corti cop 01

A margine del mio discorso numerologico, noto che, verso la fine del Medioevo, svago e gioco cominciavano ad assumere un valore sociale sempre più rilevante, perché strettamente collegati con il sistema produttivo; in buona sostanza, proprio perché il lavoro elevava l’uomo dallo stato di pura esistenza, lo svago diventava sempre più una necessità, capace cioè di migliorare la qualità del lavoro, lo stesso rendimento del lavoratore. Sostanzialmente, questo passaggio, a fine Medioevo, segna, di fatto, la nascita della "sfera ludica", all’interno delle umane attività, che, nel corso dei secoli successivi, avrebbe assunto, via via, importanza sempre maggiore, se non centrale.

D’Amore indica ancora una volta proprio in Boezio la fonte degli interessi e delle conoscenze dantesche in materia di logica. Precisamente, Boezio autore del Modi significandi sive quaestiones super Priscianum maiorem, giudicato, sostanzialmente, da D’Amore, come testo di logica delle modalità. Dante sarebbe entrato in contatto con la cultura dell’aristotelismo più radicale (con l’averroismo) già a Bologna, quando ne frequentava l’ateneo (lo stesso per Guido Cavalcanti), senza dover ipotizzare (come, invece, suggerisce Boccaccio, con le sue «fake news») un improbabile viaggio dantesco a Parigi. D’Amato segue un filo interpretativo, che già Maria Corti aveva dipanato, tra l’opera citata di Boezio e il De vulgari eloquentia (Dante a un nuovo crocevia).

Montefeltro

In Pd XII, ai vv. 134-35, Dante cita direttamente Pietro Ispano, nativo di Lisbona e papa, nel 1226, con il nome di Giovanni XXI, autore di trattati scientifici, e di opere filosofiche, tra cui spiccano, appunto, i «dodici libelli» (Pd, XII, 135), sostanzialmente, un trattato di logica, che Dante  dimostra, quindi, di conoscere molto bene. Pietro Ispano è nel cielo del Sole, tra i santi della seconda corona dei sapienti.

D’Amore, nel suo libro, cita e commenta altri espliciti riferimenti alla logica, presenti nella Divina Commedia:

- Pd, VI, 19-21

- Pd, XIII, 98-9

- If, XXVII, 112-123 (dove si legge proprio il vocabolo «loico»)

Per la terza linea di ricerca, quella relativa ai riferimenti alla geometria, D’Amore riparte, ancora una volta, da Boezio, e dalla Geometria, che questi avrebbe scritto, ispirandosi all’opera di Euclide, pur precisando che gli studi più recenti tendono a non attribuire più a Boezio la paternità di quell’opera. Il passo dantesco più noto, che D’Amore cita e commenta, è Pd XXXIII, 133-38: 

Geometra

Qual è quel geomètra che tutto s’affige

per misurar lo cerchio, e non ritrova,

pensando, quel principio ond’elli indige,

tal era io a quella vista nova;

veder volea come si convenne

l’imago al cerchio e come vi s’indova

[Come il matematico, che si concentra interamente 

Toninelli triangolo

Per trovare la misura del cerchio, e non trova,

pur impegnandosi con il pensiero, il principio di cui egli ha bisogno,

così ero io davanti a quella straordinaria visione:

volevo comprendere come l’immagine si adattasse

al cerchio, e come potesse trovare posto in esso]

Rinvio, ovviamente, alla lettura diretta delle pagine di D’Amore, per la lunga (e avvincente) analisi di questi versi del canto finale del Paradiso. Esaurita questa analisi, D’Amore pone il problema della misura delle bolge infernali, come Dante lo pone in If XXIX, 7-9. Quindi, indica il riferimento alla geometria contenuto nei vv. 88-101 di Pd XIII (all’interno di una discussione sulla sapienza perfetta di Adamo e di Cristo, e sulla sapienza di Salomone): se un triangolo è inscritto in una semicirconferenza, allora, esso è triangolo rettangolo, ha cioè un angolo retto.

Paradiso

In alcuni versi inziali di Pd XVII, dialogando con il trisavolo Cacciaguida, Dante torna a parlare di triangoli:

che come veggion le terrene menti

non capere in trïangol due ottusi (13-15)

Cacciaguida, dice Dante, vede distintamente le cose future, così come le menti umane comprendono distintamente che in un triangolo non possono starci due angoli ottusi.

Seguono, infine, citazioni da:

- Pg XV, 16-21 (esempio di ottica geometrica)

- Pd II, 94-105 (descrizione di un esperimento).

 

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