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Trifone Gargano, la Commedia bussola romanza per Marco Balzano
La Divina commedia di Dante Alighieri è una sorta di bussola, per Marco Balzano, nel suo "Pronti a tutte le partenze" - Sellerio, Palermo 2013
Anche Affaritaliani.it - Puglia ha deciso di celebrare i 700anni dalla morte di Dante Alighieri, dedicando ogni week-end questo spazio per la pubblicazione di lavori ad opera di dantisti pugliesi o di autori, i cui articoli sono ispirati all’influenza del Somma Poeta sulla realtà pugliese in particolare o quella italiana in generale.
Dopo l'esordio in accoppiata con Mina, i riflettori accesi su Netflix con la fiction di successo con Sabrina, e le incursioni ne "La casa di Jack" di Lars von Trier, l'incontro con Harry Potter nella saga di Joaanne K. Rowling; l'avventura tra i twitter fulminanti delle terzine di dantesca memoria, l'esplorazione dell'influenza del Sommo Poeta nella prosa contemporanea; e dopo l'incursione dantesca nel mondo del giallo e l'approdo in Sicilia negli intrighi di Nino Motta, e il viaggio tra le pagine dei libri di Eraldo Affinati e Giulio Ferroni, con la successiva polemica letteraria accesa da Arno Widmann, l'attenzione di Trifone Gargano (Pugliese, Docente Didattica Lingua Italiane e Informatica per la Letteratura, nonché dantista e divulgatore letterario) si concentra sulla funzione di "Bussola" de La Divina Commedia per un romanzo di Marco Balzano . (ag)
di Trifone Gargano
Questo romanzo di Marco Balzano è il resoconto di un viaggio, da Calvanico (in provincia di Salerno), a Milano, per accettare una supplenza di tre mesi, in un Istituto Tecnico. Protagonista del viaggio è un giovane trentenne, Giuseppe Savino, Giusè, professore precario di liceo, con una tesi di dottorato in «Filologia romanza», incentrata sulla questione (critica) degli ultimi canti del Paradiso dantesco. Tesi di dottorato avviata, ma non ancora conclusa. Giusè ha deciso di trasferirsi a Milano, visto che non ha più ottenuto il rinnovo dell’incarico annuale nel salernitano (nonostante i cinque anni d’insegnamento svolti come precario). E ha deciso di accettare l’offerta della supplenza a Milano pure per il fatto che è stato appena lasciato dalla fidanzata (dopo ben cinque anni di fidanzamento, e con un matrimonio in gran preparazione, e con i lavori di casa quasi ultimati):
Mettere su casa non è facile, richiede tanto tempo e infinita pazienza. Però, dopo che avevo finito di imbiancare e di sistemare le ultime cose, pensavo che la strada fosse in discesa. E che quel pomeriggio mi aspettasse una lunga nuotata e sole sulle braccia e la schiena. Invece andò tutto diversamente.
Quello che non funzionava, che d’improvviso non sopportava più, erano i miei modi di fare, ha detto spostando il lettino all’ombra e impedendomi di andare a fare il bagno [...].
Non l’avevo nemmeno capito che aveva un altro. Ci vollero tre ore di urla e di incazzatura sempre più nera [...]. uno del mio stesso paese poi! Un tizio che conoscevo e che quando incrociavo al bar o in piazza faceva persino il simpatico [...].
Il giorno dopo dovevo presentarmi all’Istituto Galilei per ritirare la nomina annuale. Certo, le riforme della ministra non lasciavano presagire niente di buono, ma, insomma, era il mio quinto anno di insegnamento, e dunque alle convocazioni ci andai bello sgargiante [...].
Insomma, non solo niente più Irene, dopo cinque anni di fidanzamento. Ma pure niente più incarico dopo cinque anni di insegnamento. Nemmeno uno spezzone, che so dieci ore, otto, quattro. Niente. Cornuto e mazziato [pp. 11-6].
A Milano, Giusè, dapprima, accetta una supplenza temporanea, presso un Istituto Tecnico, e, successivamente, finisce per adattarsi a una vita randagia, fatta di mille lavori precari (compresa pure un’esperienza breve di insegnamento, in una scuola annessa al carcere):
[...] ho vissuto per questi anni di altre sostituzioni e supplenze in posti sperduti della provincia e d’estate, per non rimanere del tutto senza stipendio, ho fatto lavoretti di ogni tipo, la guida turistica per le ville d’epoca, l’autista del furgone per il prestito interbibliotecario... [pp. 205-06].
In realtà, in questo romanzo di Balzano, c’è molto altro, rispetto all’estrema sintesi della trama, che ho appena fornito. C’è, infatti, la vita, con tutto il suo garbuglio, e con tutto il suo inganno. C’è l’amore, che va e che viene, come sempre accade. Quello con Irene, che si è interrotto, già nella prima pagina del romanzo, ma che, ciò nonostante, continuerà a perseguitarlo a lungo. Quello con Carmen, la ragazza siciliana conosciuta a Milano, ma che, come amore, non durerà a lungo. Quello con Adelìa, la bella commessa di libreria, trasferitasi da Lisbona a Milano, proprio per sposarlo, e per dargli un figlio (arriverà, infatti, la piccola Emma). C’è il lavoro, sempre più precario, sempre più nero e sempre più avvilente, senza dignità. C’è l’Università, eternamente ingrata, eternamente di casta, con i suoi riti, con le sue ipocrisie, e con le sue miserie (umane e materiali). L’università, dove i pochi posti messi a bando, sono già spartiti, per appartenenza, per banda, per affiliazione:
Se fai un compito eccellente e se i membri della commissione avranno ognuno il proprio protetto e non riusciranno a mettersi d’accordo può anche scattare la legge che passa lo sconosciuto... – disse col suo riso misurato e amarognolo [p. 205].
C’è la scuola, caoticamente viva (la scuola al Sud, ma anche quella al Nord, nei licei, negli istituti tecnici e professionali, nelle scuole medie, e, finanche, nelle carceri). La scuola, quella vissuta, e quella raccontata, che finirà per conquistare Giusè. La scuola come strumento di contatto autentico tra le generazioni; la scuola come palestra di vita. Sì, la scuola. Proprio la scuola, il mondo pulsante che gli farà voltare definitivamente le spalle all’Accademia, miseramente asfittica.
C’è pure il Sud, nel romanzo di Balzano. Il Sud con il pizzo, con gli abusi, con le pistole, e con le continue partenze. Con il mare, con gli amici al bar, e con la famiglia: papà Vittorio e mamma Rosalia; il fratello Antonio, praticamente uno sconosciuto, che non vedeva e che non sentiva mai; e, poi, a Milano, zia Teresa. C’è il Nord, ovviamente. Con le case a ringhiera, con la solitudine, con le periferie, con lo sfruttamento, con i palazzoni di «quindici piani schiacciati dal cielo scuro» (p. 151). C’è la rabbia. La rabbia sorda e potente, che spinge il padre di Giuseppe, Vittorio, a rimproverare suo figlio, e tutti quelli della sua generazione, perché – a sentir lui - non hanno saputo più tirar sassi, come una volta:
Si mise a gridare parolacce in dialetto infilandoci dentro il governo, Dio, l’istruzione e la sua sorte di lavaggista. Poi mi fissò negli occhi: - Ebbè? Adesso andate a fare casino da qualche parte o fate i soliti ribbusciati che ve lo prendete in quel posto senza dire una parola?
[...] Perché anche se sei grande e grosso stai qui coi denti in bocca e invece dovresti andare a tirare i sassi sulle finestre del ministero [p. 23 e p. 32]
La stessa rabbia che spinge Vittorio a vendere l’autolavaggio, per non cedere alla richiesta di pizzo dei camorristi.
Infine, nel romanzo di Balzano, c’è pure Dante, ovviamente. Quello della vita quotidiana, grazie al quale i singoli versi della Commedia valgono come bussola di orientamento, nel caos quotidiano. Un Dante, dunque, proverbiale, che serve da commento sui casi della vita, da ricerca di senso, nella gran selva quotidiana.
Poi, c’è il Dante degli studi accademici. Quello della tesi di dottorato, che Giusè sta svolgendo da sempre, che lascia, e che riprende, e che, alla fine, finalmente, completerà. Segnalo, alle pp. 102-03 del romanzo, un curioso micro-saggio dantesco, ben incastonato nella trama narrativa della storia. Un’autentica gemma preziosa. Esempio di dialogo tra lingue e stili differenti (e distanti), all’interno della stessa opera. Segno di una grande maturità artistica di Balzano, a dispetto della giovane età. Un micro-saggio molto interessante, sulla questione del volto di Dio. Sul problema della fisicità del Male, osservata all’interno della cantica dell’Inferno, con tutta una dovizia di descrizioni corporali, della puzza, delle mani, dei piedi, dei denti, degli occhi, delle urla, dei lamenti, dei dannati. Ma anche micro-saggio sulla evanescenza del Bene, che, al contrario del Male, viene osservato nella cantica del Paradiso, e che è ridotto a semplice «ricamo di luce», privo totalmente della fisicità del Male. Il "bene non ha mai volto definito", sentenzia infatti Giusè, in una sua riflessione; al contrario, aggiunge, il Male ha "volto":
Volevo dimostrare che, man mano che Dante si avvicina a Dio, i personaggi diventano meno descritti nella loro esteriorità. Se nell’Inferno sentiamo la puzza, il buio, lo sporco, se assistiamo a mani e piedi che si azzuffano, denti che mordono, pelle bruciata, salendo il corpo non c’è più. Rimangono la luce, la musica celeste, ma quell’asprezza dei sensi scompare. Dunque la salita verso il bene è per il poeta anche un cammino verso la dimenticanza del nostro corpo troppo umano, degli impulsi che non si placano mai e che tornano ogni volta ad avvicinarci alla porta spalancata dell’Inferno [...].
Eppure Dio, a differenza di tutte le altre sembianze del Paradiso, è l’unico che, alla fine, rivelerà a Dante un vero volto. Concreto. Corporale [...]. «La nostra effige», scrive l’Alighieri, dove «nostra», è chiaro, vuol dire dell’uomo. [pp. 102-03]
Nelle ultime parole citate, Balzano, attraverso la voce di Giusè, allude al verso 131, del canto XXXIII del Paradiso: «mi parve pinta de la nostra effige», che serve a Dante, alla fine del suo viaggio, a riconciliarsi con Dio. Per aggiungere, subito dopo, a livello di chiarimento del suo ragionamento critico, intorno agli ultimi quattro canti del Paradiso:
Questo volevo scrivere, che il viaggio di Dante non è una rimozione della vita terrena, ma un suo compimento [p. 103].
Constatando, con estrema nitidezza, che, quando studiava Dante, si sentiva, decisamente, una "persona migliore":
Come se un riflesso di quella luce che lui riusciva a descrivere e vivificare arrivasse fino al mio silenzio e alle mie scontentezze [p. 103].
I titoli dei capitoletti del romanzo sono tutti versi danteschi, opportunamente scelti dall’autore, pescando dalle tre cantiche, per anticipare, in forma sintetica e sentenziosa, oppure, per commentare, in modo fulminante (con un numero di caratteri inferiore a quelli di un twitt), l’argomento del capitolo, che il lettore si appresta a leggere, per indicarne, cioè, il senso, in forma di giudizio sintetico:
A retro va chi più di gir s’affanna [Pg, XI, 15]
Tu lascerai ogne cosa diletta [Pd, XVII, 55]
Era già l’ora che volge il disìo [Pg, VIII, 1]
Pensa, lettor, se io mi sconfortai [If, VIII, 94]
E come amico omai meco ragiona [Pg, XXII, 19]
Ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni [If, XXII, 14-5]
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno [If, II, 1]
Mosser le labbra mie un poco a riso [Pg, IV, 122]
Di nova pena mi conven far versi [If, XX, 1]
Vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore [If, I, 83]
Come sa di sale lo pane altrui [Pd, XVII, 58]
Ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto [If, I, 36]
Novi tormenti e novi tormentati [If, VI, 4]
Andai, dove sedea la gente mesta [If, XVII, 45]
Conosco i segni de l’antica fiamma [Pg, XXX, 48]
Di quella sozza e scapigliata fante [If, XVIII, 130]
Saltò e dal proposto lor si sciolse [If, XXII, 123]
Né la nostra partita fu men tosta [Pg, II, 133]
Lo mio maestro, e io dopo le spalle [If, X, 3]
E io ch’avea d’error la testa cinta [If, III, 31]
Quelli che vince non colui che perde [If, XV, 124]
E riposato de la lunga via [Pg, V, 131]
La presenza dantesca, comunque, non si limita soltanto a queste citazioni sentenziose. Come ho già scritto, Giusè è impegnato a svolgere una ricerca di Dottorato, sulla questione critica degli ultimi quattro canti del Paradiso, cioè, sulla questione critica del volto di Dio, di come questo volto si manifesti. D’intesa con il suo professore universitario, il prof Ramino, oramai prossimo alla pensione, e per un suo personale scatto d’orgoglio, Giusè decide di riprendere il lavoro di tesi di dottorato, e di portarlo a termine, nella convinzione (illusoria) che, studiando Dante, egli si senta (o possa sentirsi, o, comunque, possa essere) «una persona migliore». Quasi un «riflesso di quella luce» divina, capace, quella luce, di giungere fin dentro al suo silenzio, fin dentro alle sue scontentezze (p. 103).
Inoltre, la presenza dantesca è testimoniata anche dalla frequente citazione di versi della Commedia, di pagina in pagina, nel romanzo, con valore di sentenza morale, o di motto proverbiale, capace, cioè, tutti i versi citati, di fornire al lettore, ma anche al narratore, a Giusè (e allo stesso Marco Balzano), in questo modo, un commento sul personaggio, o sulla vicenda narrata, o sull’avvenimento vissuto: l’addio di Irene; la partenza per Milano; e così via.
Il romanzo contiene tanti altri riferimenti ad autori e testi della letteratura italiana (oltre che a Pessoa, naturalmente, visto la borsa di ricerca che Giusè va a svolgere in Portogallo è su Pessoa). C’è Carducci, per quel suo invito a scrivere testi stringati ed essenziali (quasi fossero odierni twitt):
[...] come saprà, Carducci afferma che chi dice in venti parole quel che si potrebbe dire in cinque è un criminale [p. 31]
C’è Guido Gozzano. Quando Giusè arriva a Milano, infatti, è accolto in casa da zia Teresa, in via Serra:
Mi sembrava di essere finito in una poesia di Gozzano. C’erano una dozzina di cornici con le foto dello zio Mario, una con in testa il cappello da ferroviere. Mi raccontò che sua figlia Daniela aveva una quarantina d’anni, due bambini e si era separata da poco [p. 42].
C’è Giovanni Pascoli: "perché dolore è più dolor, se tace".
Alla fine della storia, Giusè, finalmente, capisce quale sia il suo posto nella società, nel mondo. e sceglie. Lo capisce proprio rifiutando una proposta di post-dottorato:
[...] Ramino mi convocò all’università per propormi un assegno di post-dottorato, sempre a Lisbona [...].
- Professore, ora che siamo qui possiamo dircelo, - gli dissi cercando complicità – Pessoa è un poeta con la puzza sotto il naso, che non ha la capacità di immaginazione. Mai una parola che sappia evocare un’immagine, mai la mano di una donna, una nuvola, una tazza di latte, una casa col tetto colorato... Solo essere e non essere. Dopo aver studiato Dante non è facile adattarsi a uno scrittore così [...]. sa, ho voglia di tornare a insegnare a scuola. In Portogallo ho pagato troppo il fatto di non sentirmi utile a nessuno [pp. 203-04].
Lo stesso prof Ramino, in un altro dialogo con Giusè, si era aperto, e gli aveva confessato che, in effetti, anche lui, tempo prima, aveva avvertito, dopo una carriera tutta spesa per la ricerca, un senso di inutilità:
Tornassi indietro mi occuperei di divulgazione, parlerei di letteratura a più gente possibile, la smetterei con i tecnicismi e con la critica puntigliosa. Bisogna trovare un altro codice, un altro modo di connettere le cose che si sanno con quelle che si vivono, altrimenti non ha senso, viviamo per frammenti, ci riduciamo ad essere inutili banche dati [p. 166].
Vale, per tutto, la sentenza con la quale Giusè chiude il romanzo:
L’importante, mi ripeto sul treno dei pendolari, è non sentirsi una tartaruga girata sul dorso. L’importante, vista l’aria che tira, è puntare i piedi [p. 207].