Roma
Addio a Morricone: una leggenda partita da Trastevere alla conquista del mondo
Il maestro Morricone ha amato la Capitale e ne è stato ricambiato. Ha usato il suo talento per difendere e sostenerne l’immagine
di Patrizio J. Macci
Ennio Morricone scomparso a 91 anni lascia un vuoto grande come il perimetro della Capitale e che pesa molto di più di un premio Oscar.
Autore di cinquecento colonne sonore vincitore di due “statuette” nel 2007 e nel 2016, con la stella sulla Walk of Fame di Hollywood, innumerevoli premi e riconoscimenti, tra i quali un Leone d’Oro alla carriera, tre Grammy Awards, quattro Golden Globes, sei Bafta, dieci David di Donatello, undici Nastri d'argento, due European Film Awards, un Polar Music Prize. Ha lavorato con registi come Sergio Leone, con il quale c'è stata una intensa collaborazione con la Trilogia del Dollaro (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono il brutto e il cattivo) e in quella del Tempo (C’era una volta il West, Giù la testa, C’era una volta in America), Elio Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), Giulio Montaldo (Sacco e Vanzetti), John Carpenter (La cosa), Roland Joffé (Mission), Brian De Palma (Gli intoccabili), Barry Levinson (Bugsy), Mike Nichols (Wolf), Oliver Stone (U Turn) e Quentin Tarantino.
Se, come ha scritto qualcuno, il genio fa quello che può ma il talento fa quello che vuole il Maestro, che si schermiva sentendosi chiamare così fuori dalla sala d’incisione o dagli ambienti musicali, ha amato la Capitale e ne è stato ricambiato sin dagli anni della sua formazione e ha usato il suo talento per difendere e sostenere l’immagine di Roma del mondo durante tutta la sua carriera
Dal cuore della città dove era nato a Trastevere, gli studi liceali al Massimo con il gotha di quella che sarebbe diventata la “Roma che conta” in politica, nell’arte e nella cultura aveva scelto di vivere in un attico che affacciava in via Ara Coeli dal quale abbracciava il Campidoglio, e allungando lo sguardo si poteva cogliere in lontananza la linea azzurra del mare di Ostia. Erano i domini sui quali faceva volare le sue note seduto davanti al pianoforte circondato da scaffali su cui erano sistemati migliaia di dischi, libri, spartiti, videocassette e dvd, i cimeli di decenni di viaggi intorno al mondo. Sempre in partenza alla ricerca di fonti d’ispirazione l’appartamento all’ultimo piano era rimasto il suo buon refugio.
Fino a pochi anni fa quando aveva traslocato verso una periferia oramai inglobata anch’essa dalla città, spostandosi nel verdeggiante quartiere dell’Eur. Aveva bisogno di silenzio e si era spostato tra a sud-est, lontano dal cuore della città il cui battito era diventato troppo forte anche per i tripli vetri delle sue finestre. Scendeva da casa per “sentirsi in un quadro di De Chirico” aveva dichiarato una volta.
C’è un ricordo personale che può raccontare il cordone ombelicale che lo legava a Roma e l’umiltà dell’artista: a un incontro pubblico un critico musicale lo aveva salutato ad alta voce definendolo come l’ipotetica quarta sinfonia di Ottorino Respighi dopo I pini di Roma, Le fontane di Roma e Feste Romane. Era rimasto impassibile ma alla fine della serata con un sorriso aveva replicato: “Senza esagerare, uno dei pini raccontati in musica da Respighi va più che bene”.