Roma

Andreotti e Coronavirus: 7 anni fa la morte dell'uomo che sfidò una pandemia

di Patrizio J. Macci

Il 6 maggio del 2013 la morte di Giulio Andreotti: sette anni dopo, l'Italia travolta da una pandemia come quella Asiatica che il politico affrontò nel 1957

Giulio Andreotti al tempo del Coronavirus ora che sono trascorsi sette anni dalla sua scomparsa. La riflessione è dovuta e per nulla peregrina perché lui una pandemia l’aveva scampata nel 1957, data d’inizio dell’epidemia battezzata Asiatica che si protrasse con diverse ondate per un decennio e che fece otto milioni di contagi.

 

Se dovessimo fare i confronti a parità di infettati, quella che gira adesso si porterebbe via un quarto di milione di persone. Andreotti in quella bufera era già ministro e aveva neanche quarant’anni e giocava a ping pong. Per breve tempo ministro dell'Interno e poi alle Finanze. E’ stato uno dei pochi uomini politici italiani che si poteva mandare all’estero senza avere timore di scivoloni o incomprensioni. “I suoi modi da professore” scrisse Henry Kissinger, “nascondevano una mente politica affilata come un rasoio". Per questo motivo quando qualcosa bolliva in pentola nel Mediterraneo lo chiamava alle cinque del mattino. La sua fu l'ultima politica estera realmente autonoma. Dopo di lui, l’irrilevanza elevata all’ennesima potenza.

Nelle case di pochi italiani c’era una televisione in bianco e nero con venti sfumature di grigio. Sembra di riesumare eventi accaduti un’era geologica fa mentre milioni di italiani si affannano per mettere una pentola sul fuoco e le sedi dei partiti dove bussare per un aiuto non esistono più. In quelle della Democrazia Cristiana, pare per ordine espresso e mai scritto del Divo Giulio, vicino alla scrivania del segretario c’era sempre collocato un armadio che non conteneva cancelleria e neanche materiale elettorale ma generi alimentari e beni di primo consumo da consegnare brevi manu a chiunque si presentasse. Nessuno aveva ancora coniato la parola solidarietà, era semplicemente un aspetto straordinario della cultura democristiana. Qualche maligno ha insinuato che fosse una maniera per tentare di farsi perdonare i peccati in terra per quando fosse stato il redde rationem in cielo.

Un notista politico ben informato è venuto in possesso di un suo libretto uscito postumo per volontà dei familiari intitolato Post mortem che raccoglie alcune sue lettere scritte nel corso degli anni e occultate in una borsa dentro a una scansia da leggersi solo a trapasso avvenuto.Sono testi che smontano la leggenda di Andreotti Grande Vecchio della storia d’Italia, e non solo perché è lui stesso a giurare ai suoi figli di non aver commesso nulla di quello che gli fu addebitato dopo un’esistenza vissuta a pattinare sui sospetti altrui. Un “pettegolino” come lo definì Pietro Nenni negli anni Quaranta che nulla dimenticava pur sapendo incassare qualsiasi pugnalata a tradimento. Semplicemente non faceva una piega.

Nell’ultima lettera scritta nell’estate del 2005, con l’angelo della morte che gli bussava alla porta con l'ordine di prepararsi a fare i bagagli, scrisse con la sua grafia minuta e mai incerta: “Non ho istruzioni da dare, ho già comandato troppo da vivo”.

E poi un post scriptum aggiunto in corner: “Viene al portone spesso un poverino, spesso ricoverato per cure. Con i miei lo chiamiamo il Vecchietto. Aiutatelo”. Questo per dire come, all’approssimarsi della fine, l’uomo che nel nostro Paese è stato identificato con l’idea del Potere allo stato puro si preoccupasse di “aver comandato troppo” e chiedesse solamente di aiutare gli ultimi.