Andreotti e il Decameron moderno tra vita pubblica e goliardia: il romanzo
“Il buono cattivo” sbarca nelle librerie: la recensione
di Patrizio J. Macci
Giulio Andreotti è scomparso nel 2013 ma dal suo archivio sterminato un piccolo capolavoro si è fatto largo tra i flutti delle carte ed è approdato in libreria. È il romanzo “Il buono cattivo” pubblicato da Elisabetta Sgarbi per La nave di Teseo editore, rinvenuto dalla figlia Serena rimettendo in ordine i documenti paterni.
Le cronache annotano che Andreotti (sette volte presidente del Consiglio, ventuno volte ministro in numerosi dicasteri dopo essere stato sottosegretario alla Presidenza, deputato dal 1946 al 1991, parlamentare europeo e infine senatore a vita) ininterrottamente scrivesse mentre seguiva i lavori dell’Aula senza mai perdere il filo degli avvenimenti. Inoltre non aveva mai abbandonato la sua professione di giornalista pubblicando in vita una quarantina di volumi.
Ma l’Andreotti autore di questo romanzo scritto nel 1973 ha una ricercatezza stilistica e un garbo raro da trovarsi, perché racconta una città che non esiste più geograficamente (l’Ippodromo di Tor di Valle che lui chiama Villa Glori, il litorale selvaggio e misterioso a sud di Ostia con i “capocottari” protagonisti del delitto Montesi) affollato dai romani sbozzati con la sua penna ironica e tagliente “Roma non è una città imprenditoriale ma come industria dei ruoli è davvero imbattibile”: è la rievocazione del mondo del cinema che impazzava negli anni Cinquanta.
Il filo conduttore della narrazione è il soggiorno in una pensione estiva nel quale Andreotti rinchiude alcuni personaggi come in un decameron moderno. Qui il “Giulio nazionale” si scatena raccontando di sé come non ha mai fatto prima.
L’autoironia sul non essere mai stato sportivo, l’Indifferenza a ogni attività fisica nata nella “palestra” della scuola elementare, “uno scantinato buio e tanto polveroso che, quando l’istruttore comandava di battere il passo, si levava dal suolo una specie di nuvoletta” che insozzava gli aspiranti atleti.
La facilità nel cadere vittima di raffreddori, i pomeriggi passati in biblioteca dove poteva usufruire del riscaldamento gratuito (nelle case dell’epoca era un lusso), la passione per il teatro (un biglietto in cambio dell'obbligo di fare la claque), l’hobby maniacale di collezionare la posta affrancata degli ultimi diciotto anni dello Stato Pontificio. Quindi il racconto delle profferte amorose dell’olandese Van alla manicure Orietta. E tanta presenza di Roma papalina con la sua corte di prelati e una puntigliosa analisi sui negozi di abbigliamento ecclesiastico e la vicenda storica della moda religiosa dei cappelli. Il volume è diviso in due parti, nella seconda l’autore pone un filtro tra sé e il lettore presentando alcuni ritratti e racconti fulminanti che gli vengono sottoposti in lettura durante il soggiorno in albergo nei quali non è difficile riconoscere personaggi che hanno attraversato la sua lunghissima attività politica.
Perché concludendo andreottianamente “a pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina”, e l’opera di fantasia rimane il luogo più idoneo nel quale riporre alcuni pensieri che avrebbero stonato nelle pagine del politico e del giornalista.
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