Roma

Atac al collasso. “Sono costato 50mila euro ma io me ne vado”: la lettera

Il paradosso dell'azienda che investe sui dipendenti e poi li abbandona

Undici anni e mezzo di servizio, una carriera costellata da risultati lavorativi e promozioni, un investimento ingente per farlo diventare macchinista. Lorenzo R., ex dipendente di Atac, spiega in una lettera i paradossi che stanno mandando a rotoli la municipalizzata dei trasporti. A un passo dal fallimento, Atac arriva a ignorare i propri lavoratori, il tessuto umano che dovrebbe reggere l'azienda.

 

Quando Lorenzo R. ha presentato la propria lettera di dimissioni, nulla nella municipalizzata si è mosso. Non una chiamata, non un messaggio, una lettera, una mail che chiedessero al lavoratore quali erano le ragioni dell'addio. Eppure l'azienda aveva investito – e tanto – per farlo diventare macchinista: 50 mila euro per un anno di corsi e per gli esami ministeriali che con le sue dimissioni, ad appena 2 anni da tutto questo percorso, vanno in fumo.
Impegnati con la procedura di concordato fallimentare, vertici e capiservizio si lasciano sfuggire di mano risorse promettenti e lavoratori cresciuti in azienda. Lorenzo R. ci è entrato nel 2005 come ingegnere informatico quando aveva 35 anni, arrivando primo a un concorso a cui partecipavano altri 3 mila candidati. Da quel giorno ha ricoperto svariati ruoli nei diversi settori di Atac, senza che mai gli arrivasse un rapporto disciplinare e ottenendo ottime referenze. Nella sua lettera accorata si legge il rammarico di un uomo che un tempo era orgoglioso di indossare la camicia azzurra della municipalizzata romana dei trasporti e che oggi non ce la fa più.

“L'unico a chiamarmi è stato un collega di Prenestina, peraltro estremamente cortese e professionale, per dirmi che se avessi avuto un figlio più piccolo di 3 anni avrei dovuto eseguire un'altra procedura e per chiedermi se la lettera volessi ritirarla nel suo ufficio oppure riceverla per raccomandata”, scrive Lorenzo R.
Burocrazia spicciola, insomma, e nessuna umanità, solo la fretta di concludere al più presto una pratica forse fastidiosa. È lui stesso a sottolinearlo, affermando di essere stato trattato come “un numero, una matricola e forse pure qualcosa in meno”.

Per un dipendente che ormai ha fatto la scelta più radicale ossia quella di lasciare il proprio posto di lavoro, l'atteggiamento tenuto dall'azienda diventa solo una conferma di quanto già sperimentato durante gli anni di servizio. Il rammarico però rimane e Lorenzo R. si chiede come mai non siano le Risorse Umane ad occuparsi di queste incombenze e ricorda che l'espressione porta in sé un concetto fondamentale, ossia quello di “RISORSA: i dipendenti sono risorse. Noi siamo, o meglio dovremmo essere, una fonte di aiuto, soccorso, appoggio e sostegno, direi elementi indispensabili in un momento di enorme crisi per Atac”.


In conclusione alla lettera, Lorenzo R. prova a scuotere l'azienda con parole forti: “Con la siderale distanza tra management e dipendenti di cui avete dato ampia dimostrazione nel mio caso, come pensate che Macchinisti, Autisti, Operai e Amministrativi e tutto il resto dei miei colleghi (ancora per qualche ora) abbiano ancora voglia di lavorare per Atac? Come pensate che con queste condizioni possa ancora sussistere il grande senso di appartenenza che ne ha DA SEMPRE caratterizzato i dipendenti? Come pensate, senza la motivazione e la partecipazione totale delle risorse, sia possibile uscire dalla già grave situazione in cui Atac riversa?”.


Le parole di Lorenzo R. dipingono una fine quasi apocalittica per Atac, coi dipendenti che, abbandonati dall'azienda, se ne andranno loro stessi, lasciando Presidente, Ad e Dg soli in via Prenestina. Peccato che questi tre ruoli siano ricoperti da un'unica persona, che rischia a conti fatti di rimanere completamente sola nel palazzo dei trasporti romani.