Roma
Coronavirus, nelle mail delle detenute di Rebibbia la paura e i desideri
Da marzo le detenute possono scrivere e illustrare le proprie esigenze. Un’iniziativa dell’associazione Il Viandante
di Andrea Catarci *
Dalla fase 1 dell’emergenza covid19 le detenute del carcere di Rebibbia femminile hanno potuto comunicare con l’esterno grazie a una casella email, messa a disposizione dall’associazione “Il Viandante”.
L’indirizzo, mariopontillo@hotmail.it, porta il nome e il cognome dell’operatore volontario che ha avanzato la proposta e che l’ha poi realizzata, attivandosi per rispondere a tutte e prendere in carico le diverse situazioni senza lasciare indietro nessuna.
Tra le numerose lettere pervenute e che continuano ad arrivare, oltre a quelle preoccupate per le condizioni sanitarie e per l’eventualità della diffusione dell’epidemia dentro le mura, ce ne sono parecchie a carattere personale e legate alla comunicazione con familiari e amici. Altre richieste di aiuto vertono su aspetti di previdenza, invalidità, assistenza, casa e problematiche amministrative in genere, per cui risulta preziosa la collaborazione instaurata con il sindacato Usb – Unione Sindacale di Base –, a cui l’associazione è legata attraverso una convenzione, che ha messo a disposizione i servizi di patronato e Caf. Le informazioni raccolte hanno consentito di poter seguire le donne che sono uscite da marzo per le disposizioni anti covid o per decorrenze naturali, circa 90 su poco meno di 400 in totale. Quelle che ne hanno fatto richiesta si sono viste recapitare a domicilio i pacchi di aiuti alimentari, non per l’efficienza e la benevolenza di qualche istituzione ma per la capacità di fare rete tra organizzazioni di volontariato: in questo caso sono stati indicati gli indirizzi a “Nonna Roma”, splendida realtà attiva in diversi municipi, che ha offerto il proprio supporto.
L’iniziativa ha colto nel segno, perché quello della relazione con l’esterno è stato ed è uno dei principali problemi dei reclusi, in particolare da quando la pandemia ha ulteriormente peggiorato il quadro. Non è un caso che la classica goccia che ha provocato le rivolte di marzo sia stata la decisione di attuare ciniche misure di contenimento come la sospensione dei permessi premio, del regime di semilibertà e dei colloqui con i familiari. Un risultato importante è stato ottenuto: il governo ha dato impulso all’utilizzo della detenzione domiciliare. Come riportato nel rapporto dell’associazione “Antigone” dello scorso maggio, in due mesi e mezzo le persone recluse in Italia sono diminuite del 13,9%, portando le presenze negli istituti di pena a 52.250, su una capienza effettiva che è ancora sensibilmente inferiore con 46.731.
Il carcere è una grande questione negata e oscurata
L’attenzione dell’informazione mainstream è durata solo il tempo delle mobilitazioni. Non si va oltre qualche notizia breve, come il racconto della duplice evasione dei due giovani che hanno promesso di costituirsi una volta messi al sicuro i figli, o la descrizione sommaria della bella iniziativa presa da “Semi di libertà” onlus, con l’apertura della casa dell’economia carceraria nel quartiere San Lorenzo, nata con l’obiettivo di valorizzare le produzioni dei reclusi nell’ottica del reinserimento lavorativo. Nella sostanza sulle vecchie e nuove indecenze del sistema carcerario è caduto di nuovo il silenzio. Nei commenti sulla fase 1 dell’emergenza covid19 si discute sull’opportunità delle misure sanitarie ed economiche adottate, su quanto siano state attuate concretamente e in quali tempi, sulle responsabilità particolari –ed evidenti – di alcune regioni, Lombardia su tutte. Si dà giustamente conto delle preoccupazioni per la crisi sociale, destinata a durare - come confermato da tutte le nere stime sulle perdite -, attraverso le denunce dei soggetti colpiti e delle loro rappresentanze. C’è invece intorno alle carceri una specie di “omertà collettiva” rotta di rado, con la completa rimozione sia delle emergenze storiche che di quanto successo negli ultimi mesi. Le sommosse dal sud al nord, i 13 morti, le decine di feriti, la denuncia di pestaggi e abusi perpetrati dopo la conclusione delle agitazioni sembrano non essere mai avvenuti. Non sono bastati a far entrare seriamente la questione della detenzione nell’agenda politica. In tanti, a cominciare dal Ministro della giustizia Bonafede, hanno ritenuto opportuno non approfondire ed è stata accettata la versione accreditata a caldo, quella davvero poco credibile delle morti per overdose, a seguito del furto di farmaci e metadone nelle infermerie. Lo stesso Ministro nei giorni caldi ha scritto commenti su facebook senza neppure citare le vite perdute, in un silenzio gravissimo che ha fatto il paio con quello dell'intero governo e di tutta la classe politica.
Contro l’indifferenza si mobilitano familiari e persone solidali
A rompere il muro ci provano insistentemente i parenti delle persone recluse e chi le sostiene. Ancora a fine maggio hanno organizzato un presidio all’entrata di Rebibbia, con l’obiettivo di farsi sentire dentro e di denunciare il perdurare di una gestione indegna dei colloqui, che ancora si svolgono in stanze divise dal plexiglass e anche con 5 o 6 coppie insieme. Sono provati nella fiducia circa la possibilità di un reale cambiamento, al punto che non hanno neanche chiesto di incontrare le istituzioni carcerarie, come avevano fatto a inizi marzo bloccando la via Tiburtina e a seguito della manifestazione presso il ministero di grazia e giustizia. Nonostante ciò non si arrendono e tornano a reclamare provvedimenti migliorativi della condizione all’interno degli istituti, l’attuazione di progetti concreti per il reinserimento sociale e lavorativo, un’amnistia che permetta davvero di eliminare il sovraffollamento, contro i dominanti cori giustizialisti e forcaioli.
Sono voci accorate e parlano di una realtà intollerabile per ogni Paese che voglia definirsi civile, lasciarle inascoltati è davvero un grave atto di irresponsabilità.
* Andrea Catarci, coordinatore del Comitato scientifico di Liberare Roma