Roma

Dimissioni Zingaretti, lo zar sulla via del tramonto. Chiuso il Ventennio Pd

Comune, Bruxelles, Provincia e Regione Lazio: mai un giorno di lavoro che non fosse per la politica. Il sistema di potere costruito con Bettini

Zingaretti non lascia mai nulla al caso: persino le dimissioni sono un gesto teatrale annunciate sui social come avrebbe potuto fare solo Giuseppe Conte con accanto Rocco Casalino. Nel teatro dell'assurdo del Pd, l'addio al partito delle “poltrone” è l'inizio dell'ultimo atto. E con lui si avvia a lasciare la scena Goffredo Bettini: insieme hanno gestito tutto e tutti per oltre 20 anni. Soprattutto poltrone e consensi.

Il calcolo però stavolta è sbagliato. Perché il sipario che lo zar ha chiuso arriva in due momenti delicati: l'ingresso nella Giunta della Regione Lazio della Cinque Stelle Roberta Lombardi con i conseguenti malumori nel nuovo Movimento a guida Giuseppe Conte e la pervicacia con cui da giorni la Procura di Roma prosegue nelle indagini sulla compravendita di mascherine, inchiesta che prima o poi arriverà anche sui dispositivi pagati dalla Regione Lazio e mai arrivati.

Per non parlare dell'ossessione condivisa con don Goffredo Bettini del Conte Ter e la mossa del cavallo di Salvini, di nuovo al Governo con Mario Draghi, che li manda entrambi fuori strada. Lo sbaglio tattico non è stato un incidente da poco, anzi, un frontale che è costato ad entrambi la carriera nel Pd.

Ma lo zar, signore indiscusso dell'inclusione, è riuscito in 20 anni a consolidare un potere senza precedenti nella politica romana e nazionale nel segno dell'ossessione per la statalizzazione. La carriera parte nella Federazione dei giovani comunisti che lo proietta prima nel consiglio comunale di Roma e poi a Bruxelles come eurodeputato. Torna da segretario del Lazio del partito e strappa la Provincia di Roma al centrodestra la trasforma in un ducato personale, con tanto di erede al trono (Enrico Gasbarra) al quale lascia lo scettro di Palazzo Valentini.

Dalla Provincia alla Regione Lazio, il passo è breve, vince due volte consecutive e costruisce un sistema di potere che si basa sulla gestione della cosa pubblica legata alle poltrone che elargisce a amici, fedelissimi e persino nemici, considerando che il capolavoro della campagna acquisti per avere la maggioranza al Consiglio regionale del Lazio, transita per eletti in Forza Italia e nella Lega trasformati in stampelle, insieme all'avversario per la Presidenza che a furia di trattare finisce in Giunta. Praticamente gli avversari li include nel senso che li ingurgita.

La sua passione per lo Stato imprenditore gli fa avere anche un castello. La Regione Lazio annovera tra le sue proprietà il maniero di Santa Severa che farebbe la gioia di un privato e che invece ha il marchio pubblico, tant'è che le stanze con vista da brivido sul mare sono arredate come ostello triste e melanconico. Una roba che ricorda più la Russia della Guerra Fredda che il litorale di Roma, a due passi dall'Aeroporto Leonardo da Vinci. Ovvio che il Castello di Santa Severa per la Regione Lazio è solo un costo.

La visione statalista della Regione fa sì che il numero delle società partecipate e della presenza nell'associazionismo spazi dall'informatica alla carne e al formaggio. Con L'Arsial è nel Cda di diverse coop agricole e da quando c'è la pandemia ha distribuito aiuti e contributi dai facchini ai fuochisti, ingaggiando un duello con i laboratori privati per evitare che facessero tamponi. Tutto deve passare per la macchina regionale che distribuisce posti di lavoro ed è quasi uno Stato nello Stato. Ecco perché sul suo consenso non tramonta mai il sole. Nel suo curriculum c'è solo politica. E' l'ultimo dei professionisti del potere e nel suo curriculum non c'è mai un giorno di lavoro vero.