Roma

Droga, presa la banda di Ponte di Nona: così “Cacetto” gestiva lo spaccio

Operazione “Giulio Cesare”, in manette 12 persone: sequestrati oltre 15 chili di droga, 4 pistole ed un giubbotto antiproiettile

Droga, presa la banda padrona di Ponte di Nona: in manette 12 persone e sequestrati oltre 15 chili di droga, 4 pistole ed un giubbotto antiproiettile. A capo dell'organizzazione c'era Claudio Cesarini detto “Cacetto”, un mini boss che comandava il quartiere di Roma Est.

 

Con l'operazione "Giulio Cesare", i poliziotti della VII Sezione Antidroga hanno smantellato un'organizzazione criminale dedita al traffico di droga e alla detenzione illegale di armi da fuoco, organizzato militarmente con l'aggravante di essere una consorteria criminale armata, attiva nella zona di Ponte di Nona, periferia di Roma: sono accusati di associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga e alla detenzione illegale di armi da fuoco con l’aggravante di essere una consorteria criminale. Sequestrati oltre 15 chili di droga, 4 pistole ed un giubbotto antiproiettile.

La piazza di spaccio era operativa tra i caseggiati del comprensorio Don Primo Mazzolari 300 dove erano occupati illegalmente interi spazi pubblici e privati. L’impiego delle “vedette”, posizionate nei punti nevralgici del quadrilatero, consentiva di scorgere l’improvviso arrivo delle forze dell’ordine e quindi di allertare i pusher di turno, consentendogli di disfarsi della droga e trovare riparo nella fuga all’interno dei cortili condominiali.

Il gruppo utilizzava un ingegnoso sistema di allarme, gli spacciatori segnalavano tra i turnisti il sopraggiungere delle pattuglie attraverso un braccialetto che generava una vibrazione al polso, evitando così urla e fischi che sono tipici delle sentinelle ingaggiate presso le solite piazze di spaccio. Il sodalizio pretendeva dai pusher turni anche in orari notturni, garantendo così la continuità dello smercio di droga durante l’intera giornata sino alle ore del mattino inoltrato.

L’indagine della polizia era scaturita dall’arresto di Massimo Gabrielli, per detenzione ai fini di spaccio di 3 chili di cocaina, suddivisa in 3 panetti da 1 chilo ciascuno, occultata all’interno di un vano appositamente ricavato nell’autovettura, attivabile tramite un sofisticato congegno manuale ed elettronico. Con l’ausilio delle intercettazioni telefoniche ambientali i poliziotti sono risaliti ai vertici del sodalizio criminoso costituito da un intero nucleo familiare, quello della famiglia Cesarini e, partendo dalla catena di comando, si era arrivati all’identificazione di tutto l’organigramma.

L'organigramma dell'organizzazione criminale

Al vertice del sodalizio si erigeva Claudio Cesarini detto “Cacetto”, già tratto in arresto da questa Squadra Mobile nel 2013 per traffico di cocaina. Un vero “capo famiglia”, nel senso criminale del termine che, usufruendo di diversi legami con la malavita romana, gestiva l’attività di reperimento della sostanza stupefacente avvalendosi del cognato Massimo Gabrielli, intraneo al sodalizio al tal punto da fornire comunque un contributo indispensabile anche in regime di detenzione. Cesarini assicurava periodici rifornimenti di droga ai figli Mirko e Simone dai quali pretendeva i pagamenti dello stupefacente, dispensando direttive e consigli secondo la sua esperienza criminale: tutelando l’operato illecito dei figli, quindi, preservava il buon funzionamento e lo sviluppo del sodalizio.

Simone e Mirko ricoprivano ruoli apicali del sodalizio ma in posizione subordinata rispetto al padre Claudio poiché reclutavano giovani pusher, spesso disadattati bisognosi di guadagnare, garantendo all’occorrenza l’assistenza legale e il sostentamento economico ai “soci” arrestati. Quindi gestivano l’immissione della droga sul mercato e per fare ciò fissavano con tracotanza la centrale dello spaccio presso il comprensorio di via Don Primo Mazzolari nr. 300.

Nejz Furlan, una sorta di luogotenente della famiglia Cesarini, punto di riferimento stabile e duraturo per la lavorazione, l’occultamento, la detenzione di sostanza stupefacente, la relativa contabilità e il pagamento di spacciatori e sentinelle. Veniva coadiuvato dalla convivente Aurora Cesarini, anch’ella figlia di Claudio, la quale favoriva e partecipava stabilmente alle dinamiche malavitose della “famiglia”, nella consapevolezza e volontà di far parte di un’associazione “a conduzione familiare” di cui lei stessa condivideva le sorti e il programma, beneficiando dei ricavati delle vendite di droga.

Barbara Gabrielli, moglie di “Cacetto” e sorella di Massimo Gabrielli, partecipava attivamente alla consorteria criminosa, poiché non era semplicemente a conoscenza dell’attività illecita della “famiglia”, ma ne garantiva la prosecuzione, consapevole di un’associazione di cui condivideva la progettualità, col preciso scopo di usufruire dei proventi illeciti. Incassava somme di danaro da debitori di droga e manteneva contatti e legami malavitosi con personaggi attigui al sodalizio.

Infine i pusher e le cd “rette” (depositari dello stupefacente), attivi presso la citata piazza di spaccio, venivano identificati in Andrea Donadio, Marco Pinelli, Mario Padovani, Andrea Padovani e Francesco Grillo, che ricoprivano anche ruoli e mansioni interscambiabili tra gli stessi.

Il modus operandi della banda

La prepotenza con cui s’impossessavano di locali e appartamenti del comprensorio, nonché la spregiudicatezza con cui affrontavano le Forze dell’Ordine anche durante le indagini, palesava la loro convinzione di essere personaggi intoccabili alla stessa stregua di un sovrano con poteri smisurati. Il terrore ingenerato non solo tra i residenti, ma tra gli stessi consociati, costringeva gli spacciatori arrestati al silenzio assoluto e quindi ad affermazioni del genere: “…CHE VOI CANTÀ ..! IO NON SO NIENTE, CHE VOI CANTÀ, CHE DEVO MORÌ!? MA CHE STAMO A GIOCÀ!?”.

La solidità di un sistema malavitoso collaudato, ritenuto indissolubile, nonché l’indeterminatezza del programma criminoso ideato dagli esponenti apicali dell’organizzazione, generava l’arrendevolezza dei consociati e la convinzione che nulla poteva cambiare: “PUÒ ZOMPARE QUALCUNO, MA NON IL SISTEMA”

L’esecuzione dell’operazione ha richiesto complessivamente l’impiego di oltre 100 agenti della Polizia di Stato. Durante l’esecuzione, nel complesso abitativo oggetto di interesse investigativo, da una delle palazzine venivano lanciati numerosi vasi e gabinetti contro gli operatori di Polizia, al fine di interrompere e ostacolare l’attività in corso.

Operazione “Giulio Cesare”, in manette 12 persone: sequestrati oltre 15 chili di droga, 4 pistole ed un giubbotto antiproiettile

 

Droga, presa la banda padrona di Ponte di Nona: in manette 12 persone e sequestrati oltre 15 chili di droga, 4 pistole ed un giubbotto antiproiettile. A capo dell'organizzazione c'era “Cacetto”,

I poliziotti della Squadra Mobile, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, sta eseguendo 12 ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip, di cui 10 in carcere e 2 agli arresti domiciliari nei confronti di altrettanti romani.

Con l'operazione 'Giulio Cesare', i poliziotti della VII Sezione Antidroga hanno smantellato un'organizzazione criminale dedita al traffico di droga e alla detenzione illegale di armi da fuoco, organizzato militarmente con l'aggravante di essere una consorteria criminale armata, attiva nella zona di Ponte di Nona, periferia di Roma: sono accusati di associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga e alla detenzione illegale di armi da fuoco con l’aggravante di essere una consorteria criminale. Sequestrati oltre 15 chili di droga, 4 pistole ed un giubbotto antiproiettile.

La piazza di spaccio era operativa tra i caseggiati del comprensorio Don Primo Mazzolari 300 dove erano occupati illegalmente interi spazi pubblici e privati. L’impiego delle “vedette”, posizionate nei punti nevralgici del quadrilatero, consentiva di scorgere l’improvviso arrivo delle forze dell’ordine e quindi di allertare i pusher di turno, consentendogli di disfarsi della droga e trovare riparo nella fuga all’interno dei cortili condominiali.

Il gruppo utilizzava un ingegnoso sistema di allarme, gli spacciatori segnalavano tra i turnisti il sopraggiungere delle pattuglie attraverso un braccialetto che generava una vibrazione al polso, evitando così urla e fischi che sono tipici delle sentinelle ingaggiate presso le solite piazze di spaccio. Il sodalizio pretendeva dai pusher turni anche in orari notturni, garantendo così la continuità dello smercio di droga durante l’intera giornata sino alle ore del mattino inoltrato.

L’indagine della polizia era scaturita dall’arresto di Massimo Gabrielli, per detenzione ai fini di spaccio di 3 chili di cocaina, suddivisa in 3 panetti da 1 chilo ciascuno, occultata all’interno di un vano appositamente ricavato nell’autovettura, attivabile tramite un sofisticato congegno manuale ed elettronico. Con l’ausilio delle intercettazioni telefoniche ambientali i poliziotti sono risaliti ai vertici del sodalizio criminoso costituito da un intero nucleo familiare, quello della famiglia Cesarini e, partendo dalla catena di comando, si era arrivati all’identificazione di tutto l’organigramma.

L'organigramma dell'organizzazione criminale

Al vertice del sodalizio si erigeva Claudio Cesarini detto “Cacetto”, già tratto in arresto da questa Squadra Mobile nel 2013 per traffico di cocaina. Un vero “capo famiglia”, nel senso criminale del termine che, usufruendo di diversi legami con la malavita romana, gestiva l’attività di reperimento della sostanza stupefacente avvalendosi del cognato Massimo Gabrielli , intraneo al sodalizio al tal punto da fornire comunque un contributo indispensabile anche in regime di detenzione. Cesarini assicurava periodici rifornimenti di droga ai figli Mirko e Simone dai quali pretendeva i pagamenti dello stupefacente, dispensando direttive e consigli secondo la sua esperienza criminale: tutelando l’operato illecito dei figli, quindi, preservava il buon funzionamento e lo sviluppo del sodalizio.

Simone e Mirko ricoprivano ruoli apicali del sodalizio ma in posizione subordinata rispetto al padre Claudio poiché reclutavano giovani pusher, spesso disadattati bisognosi di guadagnare, garantendo all’occorrenza l’assistenza legale e il sostentamento economico ai “soci” arrestati. Quindi gestivano l’immissione della droga sul mercato e per fare ciò fissavano con tracotanza la centrale dello spaccio presso il comprensorio di via Don Primo Mazzolari nr. 300.

Nejz Furlan, una sorta di luogotenente della famiglia Cesarini, punto di riferimento stabile e duraturo per la lavorazione, l’occultamento, la detenzione di sostanza stupefacente, la relativa contabilità e il pagamento di spacciatori e sentinelle. Veniva coadiuvato dalla convivente Aurora Cesarini, anch’ella figlia di Claudio, la quale favoriva e partecipava stabilmente alle dinamiche malavitose della “famiglia”, nella consapevolezza e volontà di far parte di un’associazione “a conduzione familiare” di cui lei stessa condivideva le sorti e il programma, beneficiando dei ricavati delle vendite di droga.

Barbara Gabrielli, moglie di “Cacetto” e sorella di Massimo Gabrielli, partecipava attivamente alla consorteria criminosa, poiché non era semplicemente a conoscenza dell’attività illecita della “famiglia”, ma ne garantiva la prosecuzione, consapevole di un’associazione di cui condivideva la progettualità, col preciso scopo di usufruire dei proventi illeciti. Incassava somme di danaro da debitori di droga e manteneva contatti e legami malavitosi con personaggi attigui al sodalizio.

Infine i pusher e le cd “rette” (depositari dello stupefacente), attivi presso la citata piazza di spaccio, venivano identificati in Andrea Donadio, Marco Pinelli, Mario Padovani, Andrea Padovani e Francesco Grillo, che ricoprivano anche ruoli e mansioni interscambiabili tra gli stessi.

Il modus operandi della banda

La prepotenza con cui s’impossessavano di locali e appartamenti del comprensorio, nonché la spregiudicatezza con cui affrontavano le Forze dell’Ordine anche durante le indagini, palesava la loro convinzione di essere personaggi intoccabili alla stessa stregua di un sovrano con poteri smisurati. Il terrore ingenerato non solo tra i residenti, ma tra gli stessi consociati, costringeva gli spacciatori arrestati al silenzio assoluto e quindi ad affermazioni del genere: “…CHE VOI CANTÀ ..! IO NON SO NIENTE, CHE VOI CANTÀ, CHE DEVO MORÌ!? MA CHE STAMO A GIOCÀ!?”.

La solidità di un sistema malavitoso collaudato, ritenuto indissolubile, nonché l’indeterminatezza del programma criminoso ideato dagli esponenti apicali dell’organizzazione, generava l’arrendevolezza dei consociati e la convinzione che nulla poteva cambiare: “PUÒ ZOMPARE QUALCUNO, MA NON IL SISTEMA”

L’esecuzione dell’operazione ha richiesto complessivamente l’impiego di oltre 100 agenti della Polizia di Stato. Durante l’esecuzione, nel complesso abitativo oggetto di interesse investigativo, da una delle palazzine venivano lanciati numerosi vasi e gabinetti contro gli operatori di Polizia, al fine di interrompere e ostacolare l’attività in corso.