Roma

Ecco il segreto del cappellaio magico. Patrizia Fabri: “Ultimi a farli a mano”

“Il cappello non è un accessorio, ma una cultura”. Patrizia Fabri si racconta

di Tiziana Galli


Prima che la scoprisse Harry Potter la magia del cappello era già nota a molti: una seducente aura di mistero avvolge da sempre quest’oggetto affascinante che può rivelare quanto nascondere chi lo sa indossare. Oggi a Roma un’unica cappelleria artigianale continua la tradizione del Made in Italy grazie alla tenacia della proprietaria, la signora Patrizia Fabri e dei suoi sapienti collaboratori.

 

Si chiama Antica Manifattura Cappelli.

Signora Patrizia, com’è cominciata l’attività di questo laboratorio?
“E’ cominciata tanti anni fa con una famiglia toscana, e quando dico “toscana” dico madre patria del cappello e quindi “Made in Italy”, perché pochi sanno che il concetto di  “Made in Italy” nasce proprio grazie all’esportazione dei primi cappelli di paglia di Firenze, esportati in tutte le migliori corti europee del Settecento. La famiglia toscana di cui parlavo, la famiglia Cirri, viene a Roma in cerca di fortuna dopo la crisi del 1929, apre questo laboratorio dove all’inizio viveva ed inizia questa trasmigrazione del cappello fatto a mano dalla Toscana a Roma”.

E lei come si introduce in questa storia?
“Io ho rilevato il laboratorio quando la famiglia Cirri aveva raggiunto la quarta generazione di cappellai. La mia storia inizia quando a diciassette anni sono entrata qui per cercare un cappello per me stessa, l’ho comprato, ho deciso di personalizzarlo e di proporlo la domenica successiva in un negozio. La proprietaria del negozio, molto colpita dal mio esemplare me ne ordinò ventiquattro di tutti i colori. Tornai qui e il signor Loris Cirri ne rimase molto impressionato. Questo è stato l’inizio della mia avventura; in seguito ho studiato architettura e ho avuto un’azienda di scarpe, borse e cappelli.  Nel 2003 il signor Loris si è ammalato e il laboratorio rischiava di andare disperso perché pur avendo un grande valore commerciale, il mercato, soprattutto quello del cappello, era fermo. Quando mi sono resa conto che al negozio stavano svendendo le forme dei i cappelli ad un architetto di Milano, che le avrebbe forate per farne delle lampade, ho deciso di rilevare io il laboratorio, con l’intenzione iniziale di farne un museo. In seguito, invece, ho deciso di continuare l’attività con Sandro, il cappellaio che lavorava da tanti anni con i Cirri e la modista”.

Il cappello più che un accessorio è una cultura
“Brava! Più che un accessorio è una cultura perché è un accessorio che viene utilizzato ponendolo nel punto più importante di tutto il corpo: la testa. E’ la prima cosa che si vede. Basti pensare che la testa è il luogo dove si mettono simboli di riconoscimento come la corona o il cappello da professionista, per cui io dico che il cappello è un segno di identità e di identificazione.  “Identità” perché pesca proprio nell’ io e fa si che sia un oggetto di comunicazione tra noi e il mondo. Uno strumento di relazione, una liaison tra noi e il mondo. “Identificazione” perché sicuramente tutte le categorie professionali portavano segni distintivi sulla testa. Quindi, sì: il cappello è un fatto culturale che purtroppo è andato perso”.

Come abbiamo perso questa cultura?
“A causa di tre step molto importanti nell’evoluzione della moda. Uno è stato l’avvento dell’automobile che ha fatto sì che i grandi cappelli si riducessero alle cloche. Quindi non è stata Coco Chanel a ridurlo ma è stata la funzione che è cambiata. La funzione è sempre alla base di qualsiasi cosa si voglia realizzare. Il secondo step è stato quando negli anni ’70 c’è stata una grande crisi ed una rivoluzione contro le istituzioni: il cappello, essendo così identificativo è stato messo in crisi e insieme al reggiseno, negli anni ‘70 è “partito” anche il cappello! Da ultimo, negli anni ’90, con la legge sul casco, che per fortuna è stata istituita, sono stati messi in crisi anche i berretti. Questo disuso totale del copricapo ha fatto sì che se ne perdesse anche la cultura che invece è molto bella perché il cappello è un oggetto affascinante e sensuale. Si pensi alla veletta: lo sguardo, il celarsi, il concedersi, l’aprirsi, il chiudersi. Si pensi alla sensualità dello slancio del collo, mai dimenticato e messo in rilievo da alcuni modelli. Ci sono tantissime chiavi di lettura e tantissimi valori legati al cappello che purtroppo sono andati persi. Scoprire il cappello è proprio come dire “riscoprirsi”. Molte persone vengono qui e noi le “iniziamo” al cappello e con esso si riscoprono e si riconoscono; si re-incontrano perché grazie al cappello, che è un oggetto un po’ magico, trovano un nuovo modo di vedersi e di proporsi”.

Come si sceglie un cappello?
“Si sceglie ciò che si sente. Io dico sempre che il cappello è un accento su di se’, perché è un prolungamento del proprio “io”. C’è chi si vergogna, e si cela, e chi riesce a portarlo con disinvoltura. Comunque il segreto è questo: il “tuo cappello” è quello che porti come se non avessi nulla in testa. E’ come se facesse parte di te”.

Quanto può costare un suo cappello?
“Andiamo dai cento ai quattrocento euro”.

Quante ore di lavoro richiede un cappello?
“E’ difficile rispondere perché abbiamo tanti tipi di cappello con tanti tipi di spessore del feltro e la lavorazione comprende anche importanti tempi di attesa: lavorando il feltro con il vapore le materie prime si bagnano e i tempi di asciugatura vanno messi in conto”.

La qualità del cappello da cosa si evince?
“Sicuramente dalla stiratura e quindi dalla lavorazione artigianale. Noi li stiriamo su forme di legno. Quelli che si vedono in giro, a basso profilo, sono stirati diversamente. Poi c’è la lavorazione artigianale ed è come nell’haute couture: si adoperano i tessuti più belli. Sulle bancarelle si vede il feltro di lana, ma esistono tanti tipi di feltro che vanno da quello di pelo di coniglio a quello di cachemire”.