Roma

Elezioni regionali, l'M5S si è liquefatto in una notte di fine settembre

Nel centrodestra si conferma come il trend negativo della Lega finisca con l’essere interamente riassorbito da Fratelli d’Italia. L'analisi di Andrea Augello

di Andrea Augello

Le elezioni regionali appena concluse hanno determinato un indiscutibile successo del Pd, ma in tutta onestà non mi pare che proiettino straordinarie prospettive per il governo e per il futuro della coalizione che lo sostiene.

Il Movimento Cinque stelle ha quasi cessato di esistere nel panorama delle forze politiche nazionali che si battono per le elezioni amministrative: dopo i risultati regionali, che segnano un ulteriore dimezzamento rispetto alle europee – anche in Liguria dove il Movimento era alleato col PD -, mentre si prepara la resa dei conti fra l’anima governista, che vuole l’alleanza strategica e definitiva con Zingaretti, contro i nostalgici del “come eravamo”, anche dai molti Comuni che hanno votato nell’election day giungono bollettini disastrosi per le residuali truppe grilline. Nulla, a parte le esternazioni di Di Maio, lascia poi supporre che sia possibile cucire l’elettorato grillino superstite con quello del Pd: anzi, il risultato della Liguria lascia intendere che al PD potrebbe persino convenire non tentare questa strada, o comunque che gli convenga tentarla senza farci troppo affidamento.

E’ invece vero che le vittorie in Toscana e in Puglia sono una boccata di ossigeno per il leader del PD, che può ora ben capitalizzare questi due successi, ottenuti scendendo in campo da solo, senza grillini e, in Puglia, persino senza Renzi. Tanto basterà a Zingaretti ad uscire dall’angolo, riprendendo il controllo di un partito che stava per sfuggirgli di mano, e riassumendo l’iniziativa nell’agenda di governo. E’ infatti facile indovinare come la cancellazione dei decreti Salvini sulla sicurezza, l’utilizzo del MES per la sanità, oltre ad un robusto rimpasto dell’esecutivo, saranno già nei prossimi giorni tra le priorità governative, assecondando così tutte le richieste del PD delle ultime settimane.

Le grandi manovre su Roma

Infine – come immagina oggi il mio amico Mario Ajello in un suo editoriale – si profila anche la possibilità per il presidente della Regione di ottenere il ritiro di Virginia Raggi dalla corsa per il Campidoglio in favore di un complesso accordo che vedrebbe Zingaretti Vicepremier e Comune e Regione Lazio al voto insieme, a maggio, con un candidato Presidente alla Pisana di fede grillina e un PD Sindaco di Roma. Per la verità uno scenario del genere era parso anche a me come un inevitabile punto di approdo di un percorso di sopravvivenza politica di Nicola Zingaretti: ne avevo infatti scritto lo scorso 27 Maggio proprio su Affari Italiani. Ma lo scampato pericolo delle ultime regionali rende oggi quegli scenari molto più credibili e imminenti.

Al netto di queste considerazioni, per il PD rimane comunque da apprezzare un bicchiere che rimane, per ben più della metà, tristemente vuoto. Con la conquista delle Marche il centrodestra arriva a guidare 15 regioni su 20 e se è vero che, nelle 7 in cui si è votato, la coalizione di governo è avanti di qualche decimale, pare altresì innegabile come, nel totale complessivo, la Meloni e Salvini siano in testa con un vantaggio di quasi 5 punti. Inoltre il computo aggregato delle coalizioni si presenta, nel caso del centrodestra, come una foto della realtà, mentre, per il Governo, è fisiologico attendersi che una parte dei – pochi – voti dei Cinque stelle andrebbero perduti, se sollecitati per un’immaginaria coalizione tra PD e grillini nelle prossime elezioni politiche.

Inoltre una resa dei conti in casa grillina ed una eventuale scissione tra le due o tre anime che si sfidano nella consueta, surreale cornice della dialettica pentastellata, rischia di determinare fibrillazioni imprevedibili in Parlamento e nel governo.

Al contrario, nel centrodestra si conferma come il trend negativo della Lega finisca con l’essere interamente riassorbito da Fratelli d’Italia e/o dalle liste civiche dei candidati alla Presidenza di centrodestra. Anche prendendo per ben informate le Parche giornalistiche che intessono i loro quasi quotidiani editoriali su una presunta crisi di immagine del leader leghista, l’ombra gigantesca di Zaia, coadiuvata dall’esperienza di Giorgetti, costituisce una solida garanzia dell’esistenza di un validissimo piano b da attuare in caso di reale collasso della leadership salviniana. Collasso, lo ripeto, allo stato del tutto inesistente.

Caso mai, il centrodestra dovrebbe preoccuparsi seriamente del caso Campania, dove, al di là della popolarità raggiunta da De Luca con le sue indimenticabili performances televisive nel momento più difficile del Covid, sembra evidente un drammatico problema di qualità e credibilità delle classe dirigente. Se il risultato di Caldoro appare umiliante, le percentuali delle liste raccontano la storia di una ritirata dal territorio e dall’impegno civile dell’intero centrodestra, in una regione dove mai si era scesi sotto il 20%.

Credo sia logico attendersi soprattutto da Giorgia Meloni un piano straordinario di rianimazione della sua coalizione non solo in Campania, ma in generale nel sud del Paese, dove tanta parte del ceto medio e di una nuova potenziale classe dirigente, oltre a centinaia di migliaia di elettori, indugiano nel voto alla persona e/o nell’astensione, restando in paziente attesa di un centrodestra meno pittoresco di quello che hanno conosciuto negli ultimi dieci anni.

Resta da dire qualcosa, more solito controcorrente, sul referendum. Il fatto che nonostante l’indicazione unanime di tutti i partiti in favore del sì e una campagna elettorale inesistente, quasi un terzo degli elettori abbia votato contro il taglio dei parlamentari era, ancora sei mesi fa, semplicemente impensabile. A me pare il primo concreto segno dell’esaurimento di una lunghissima fase di supposta e reale reddittività elettorale della peggiore demagogia, ignorante e stracciona, tipica della comunicazione dell’accozzaglia grillina. Mi pare inoltre che questo segnale sia giunto nelle giuste proporzioni per ammonire tutte le forze politiche sulla necessità di riformare davvero le istituzioni, senza accontentarsi di gettare in pasto alla pancia del Paese qualche spot condito da slogan superficiali.

Insomma, lentamente ma inesorabilmente qualcosa sembra muoversi nel Paese nel segno di una maturazione dell’opinione pubblica, stanca di sentire sciocchezze, chiacchiere manichee, insulti e urla. Nulla di definitivo, certo, ma fra tante ombre ed incertezze è almeno un segnale promettente.