Roma
Giornalisti a concorso: le storie mai scritte. Generazione precari, praticamente "sfigati"
Precari, free lance da cinque pezzi al mese, cassaintegrati, solidarizzati e disoccupati che campano con l'indennità: santo Inpgi (l'Istituto di previdenza dei giornalisti), finché dura. Un esercito intergenerazionale cresciuto con l'idea che documentare la realtà, raccontare storie di vita, scavare sotto la corteccia della cose per scoprirne la vera natura, fosse il mestiere più bello del mondo, per poi scoprire di aver sbagliato qualcosa durante il percorso. Qualcosa o più di qualcosa. Quelli che ci credono davvero si contano sulle dita di una mano, o almeno così dicono, ma tutti ci provano: impossibile resistere al richiamo di “mamma Rai”. A venti giorni dalla convocazione del concorso per entrare nelle redazioni delle sedi regionali Rai (bandito due anni fa e poi apparentemente dimenticato, sono circa quattromila i giornalisti che hanno raggiunto il piccolo centro di Bastia Umbra, vicino Perugia. Da Messina a Milano, da Cagliari a Padova, persino dal nord Europa e da oltre Oceano: un pellegrinaggio in cerca di futuro, lungo la via che sfiora il santo di Assisi e la patrona dei miracoli impossibili Santa Rita da Cascia.
“Il fatto che in così tanti hanno attraversato l'Italia per cento posti che non sono neanche veri posti di lavoro, dovrebbe far riflettere”. spiega una collaboratrice de Il Giorno che non ha mai provato il brivido di firmare un contratto di lavoro.
Sulla spianata di Bastia Umbra, davanti ai megapadiglioni della fiera più “postata” di facebook, sono in tanti, quasi tutti, ad aver sognato di vivere di giornalismo. Ma poi è successo che qualcosa è andato storto, il giornale ha chiuso, la spaventosa crisi ha imposto tagli al personale, la raccomandata di turno è passata avanti, è così ci si accontenta, si resiste, perché “il giornalismo non è un lavoro, è sacrificio” ma anche “consolazione dell'anima”. Una specie di droga che crea dipendenza. Un ex dipendente di Rinascita, ora disoccupato racconta: “Sono iscritto all'albo dal 2003, ho fatto tante cose, ero un desk di politica estera, speravo di diventare un inviato di guerra poi però le strade della vita ti portano altrove”.
Tra i concorsisti c'è anche chi il tesserino l'ha dovuto mettere nel cassetto: “Vengo dalla Sardegna, sono un professionista ma faccio l'insegnante: per anni ho svolto il lavoro da giornalista con un contratto da call center”. C'è da non credere eppure succede. Proprio a chi avrebbe il diritto e il dovere di denunciare illeciti e ingiustizie. Ma “i panni sporchi i giornalisti li lavano in famiglia” dice un altro quarantenne in attesa di entrare. Angelo, un free lance con partita Iva con un curriculum di tutto rispetto commenta: “In fin dei conti siamo i primi a non raccontare quello che succede, forse perché alla fine la gente non è quello che si aspetta e che vuol sentire da noi, il lamento continuo non avrebbe nemmeno senso”. Professionista dal 2007, ha lavorato ovunque, televisione, giornali, settimanali, internet, poi ha scelto di lasciare l'Italia per Bruxelles per poter svolgere il suo lavoro.
Nascosto tra la folla, c'è pure chi ha intrapreso il viaggio all'insaputa dell'azienda: “Ti prego non mi fare domande, non posso parlare, il mio capo non sa che sono qui”. Una donna piena di ricci e di aspettative deluse si sfoga: “Siamo lo spaccato di una categoria di sfigati. Sono professionista da '98, ho lavorato in un quotidiano e in un settimanale, poi è finita perché il giornale di cui sono stata anche caporedattore ha chiuso. Ho dovuto ripiegare sul lavoro free lance ma non sto lavorando. Questo non è un Paese per free lance”. Aspettative? “Ci provo come tutti, il quiz è quanto di più democratico ma anche quanto di meno meritocratico possa esistere”.
Alle 13, quando il count down si ferma, l'incubo finisce. Sul piazzale bollente dopo saluti e abbracci ciascuno riprende la sua strada. Torni a fare la giornalista? “Ehmmm hai un contratto da offrirmi?”.
Luigia Luciani e Valentina Renzopaoli