Roma
Giro: una casa popolare a Roma? O si muore prima di averla oppure si occupa
L'accusa del senatore Francesco Giro: si può stare in graduatoria anche 20 anni perché nella Capitale non si fa più edilizia popolare
A Roma l’emergenza casa è - insieme all’emergenza rifiuti - il vero problema. Se almeno 10mila famiglie, con minori e disabili a carico e in disagio economico, attendono ancora una casa, occorre prenderne atto e risolvere con atti concreti questa grave emergenza sociale. Le famiglie, spesso in condizioni di assoluta fragilità, non possono attendere. Perché se attualmente il tasso di ricambio è di 500 alloggi l’anno, una famiglia in graduatoria rischia di attendere fino a 20 anni e questo è inaccettabile.
Che il piano regolatore di Veltroni, già oggi vecchio di 12 anni, e comunque concepito oltre 20 anni fa, non dedicasse molta attenzione ai piani di edilizia popolare lo denunciammo fin dai tempi della sua adozione nel 2003, quando il presidente della Regione Lazio Francesco Storace intervenne con alcuni bandi per colmare il vuoto dei progetti edificatori per l’edilizia popolare. Ce lo ricorda l’ex assessore regionale all’Urbanistica Ciocchetti: “Tra questi uno da 62 milioni per l’edilizia popolare, uno da 110 milioni per la Coop Lazio, uno per la tutela dei centri storici dei piccoli comuni del Lazio, uno da 54 milioni per l’acquisto degli alloggi degli enti e il bando per la prima casa delle giovani coppie”.
Più volte ho scritto che un Comune si identifica con il suo territorio e Roma in particolare è sempre stata - storicamente - la sua urbanistica e lo è in modo particolare dal periodo postunitario, quando dal 1871 assurge al ruolo di Capitale d’Italia. È da quel momento che si avverte immediatamente la necessità di pianificare la nuova Città e squadre di architetti e ingegneri del Regno si misero subito al lavoro per dare a Roma il volto di una capitale europea. E come scrive Mauro Cutrufo nel suo bel saggio ‘La Quarta Capitale’ “sebbene Roma mostrasse allora una evidente arretratezza rispetto alle grandi capitali europee, nel giro di pochi anni fu all’altezza del suo nuovo ruolo grazie ad un sorprendente sviluppo. Divenne in poco tempo la città più popolosa d’Italia e il centro politico e amministrativo del paese. Accrebbe il suo potere decisionale in campo economico e in essa si radunarono i massimi intellettuali regalandole una nuova e potenziata capacità di rappresentanza culturale”. Da subito la nuova classe dirigente si pone il problema della costruzione di nuove abitazioni per il nuovo personale amministrativo, per i lavoratori e gli operai che con le loro famiglie incominciarono a trasferirsi nella Capitale per partecipare alla sua repentina trasformazione politica, amministrativa, strutturale, edilizia. Inizia così lo sviluppo dei cosiddetti “quartieri di espansione” con la realizzazione di molti progetti di edilizia residenziale, popolare ed economica. E a questo proposito un bell'articolo di Marco Tamburini ricorda una verità molto utile per comprendere l’evoluzione dell urbanistica romana quando scrive che “la storia della costruzione dei quartieri di edilizia popolare a Roma a partire dall unità d’Italia è stata sempre strettamente legata alle vicende urbanistiche della città. In ogni epoca infatti lo sviluppo degli insediamenti di natura economica e destinati alle fasce socialmente più deboli ha rappresentato un’occasione per rilanciare l’attività edilizia e per attuare le previsioni di espansione della città” . E ancora “da un punto di vista strettamente urbanistico, la pianificazione dei quartieri economici e popolari ha sempre rappresentato un momento di alta produzione culturale e di forte sperimentazione innovativa. Si può affermare che le migliori realizzazioni dell’ultimo secolo a Roma sono frutto dell’attuazione di programmi per l’edilizia popolare”. E proprio l’analisi condotta da Tamburini dimostra che lo sviluppo urbanistico di Roma è storicamente vincolato a quello particolare dell’edilizia pubblica, economica e popolare, che ha orientato le scelte per la realizzazione dell’edilizia privata che anzi sembra averne tratto degli evidenti vantaggi. Dopo il 1880 parte la costruzione dei primi insediamenti abitativi, accanto e intorno alla città antica e all’interno delle Mura aureliane, con la nascita dei quartieri dell’Esquilino, di Prati e su via Nazionale. Ma è solo dal 1888 che inizia il primo progetto di edilizia popolare su ampia scala e “a ridosso dei principali impianti industriali” a San Lorenzo, Testaccio, Porta Maggiore-Santa Croce. I nuovi insediamenti venivano realizzati al di fuori del perimetro e delle stesse previsioni del piano regolatore. Sarà questa una costante che favorirà un’espansione della città secondo due linee di sviluppo 1) a macchia d’olio, dal centro verso l’esterno 2) e per saldamenti successivi, riempiendo le aree intermedie con la speculazione dell’edilizia privata. Se i primi quartieri di edilizia popolare vennero individuati fuori dal Piano regolatore del 1873, successivamente col nuovo piano del 1907 vennero individuate 5 zone di espansione (piazza Mazzini, piazza Gentile da Fabriano, piazza Verbano, piazza Bologna e piazza Re di Roma) dedicate alle iniziative edificatorie dell’Istituto Case popolari, nato quattro anni prima, nel 1903, che beneficiò di mutui e di una serie di procedure agevolate. Successivamente, negli anni venti, alcuni celebri architetti ampliarono i quartieri Mazzini e Verbano utilizzando nuovi e più efficienti criteri edilizi e abitativi. Sempre in quegli anni l’istituto realizzò alla Garbatella e a Monte Sacro delle “città giardino” entrambe al di là delle previsioni del Piano regolatore secondo quel metodo già praticato alla fine del secolo precedente “in modo tale- ricorda Tamburini- da incrementare il valore delle rendite delle aree intermedie di proprietà privata”. Nasceranno cosi, in epoca fascista, le prime borgate sulle vie consolari a 10-12 chilometri dal centro di Acilia, San Basilio, Gordiani, Prenestina e in attuazione del piano regolatore del 1931, sorgono dal 1935 gli insediamenti di Val Melaina, Tufello, Pietralata, Quarticciolo, Trullo, Primavalle e Tiburtino 3, per 15.000 abitanti.
Ma è con la fine del secondo conflitto mondiale che l’edilizia diventa il fulcro di un piano di rilancio economico di un paese che aveva bisogno di essere ricostruito e che prevedeva una crescita demografica soprattutto nei grandi centri urbani e Roma non fece ovviamente eccezione. Il Programma INA Casa della Legge Fanfani rese possibile fra 1949 e 1963, la costruzione di circa 110.000 alloggi “all’interno di alcune delle migliori esperienze di progettazione urbana del secolo scorso, con la partecipazione di autorevoli esponenti della cultura architettonica del tempo (De Renzi, Fiorentino, Gorio, Libera, Marconi, Muratori, Quaroni)” e un ritorno “alla ricerca e alla sperimentazione compositiva, tecnologica e tipologica” (Tamburini). Ma ancora una volta le aree erano dislocate fuori dal Prg come il Tuscolano, Tiburtino, Ponte Mammolo, Torre Spaccata. Ma ben presto, con l’approvazione della nota legge 167 del 1962, l’edilizia popolare ebbe un suo specifico strumento giuridico di riferimento perché affidava ai Comuni la responsabilità di elaborare un Piano ventennale di Edilizia Economica e Popolare e il primo venne approvato nel 1964. E sempre in quegli anni venne prima deliberato e poi adottato il nuovo piano regolatore di Roma (1962-1965), trent’anni dopo quello del 1931, che non pochi guasti aveva provocato nel tessuto urbano della città sottoposto ad uno stress espansivo e speculativo su più direzioni. Con il primo PEEP di Roma del 1964 vennero individuati 72 ambiti per realizzare circa 712mila nuovi alloggi, un fabbisogno calcolato su una stima di crescita demografica della città fino a 5 milioni di abitanti, risultata da subito eccessiva. Se da un lato l’edilizia privata visse una notevole espansione, lo sviluppo di quella pubblica, economica e popolare, non fu costante anche per le difficoltà economiche del Comune. Solo negli anni ‘70 si verifica una ripresa dell’edilizia sociale sovvenzionata anche per l’emergenza abitativa che colpiva fasce di popolazione sempre più significative che non erano in grado di accedere al mercato privato. È di quegli anni la nascita di molti nuovi insediamenti abitativi previsti dal I PEEP del 1964 ,sempre periferici e sulle consolari, a Tor Bella Monaca, Corviale, Laurentino 38, Vigne Nuove, Serpentara.
Nel 1984 viene quindi varato il II Peep che assorbe il residuo del precedente piano ventennale ma viene elaborato secondo i nuovi criteri della “riqualificazione dei margini della città esistente... e il completamento dei tessuti periferici” cercando di sviluppare interventi di qualità “nei vuoti urbani interstiziali” secondo un preciso “disegno urbano” e “forma della città” (Tamburini). Un impegno tuttavia destinato a fallire per le molte varianti al piano dovute all’incapacità di gestire in mondo unitario e coordinato progetti complessi in un territorio dove potevano emergere delle preesistenze archeologiche e quindi una conflittualità con i vincoli. I quartieri nascevano e si svilupparono secondo schemi molto diversi da quelli originari con insediamenti “standardizzati”, “poveri di qualità spaziale e urbana” e “di dotazione di servizi” (Tamburini). Giunti al 2007 non solo scadeva il II PEEP ventennale ma stava per entrare in vigore il nuovo piano regolatore di Roma approvato nel 2008 dove gli assi portanti erano essenzialmente tre : la cura del ferro, la tutela dell’area verde, l’assetto policentrico e metropolitano della città con la realizzazione delle 18 centralità. Un piano regolatore controverso che ha riscosso critiche e apprezzamenti . Cè chi lo ha considerato il sigillo di un patto già scritto e chi l’inizio di un nuovo progetto urbanistico; chi un piano che nasceva avendo già esaurito le proprie previsioni edificatorie a vantaggio di quelle da tempo consolidate e chi al contrario lo giudicava un sistema moderno ed evolutivo per realizzare una città in grado di gestire nuove tipologie urbane. “L’urbanistica di Walter Veltroni e del suo predecessore Francesco Rutelli si è sviluppata sulla base di accordi fra l’amministrazione pubblica e i privati possessori di aree. Lo hanno definito ‘il pianificar facendo’. La perdita di forma che Roma andava assumendo ha ricevuto il sigillo dell’ultimo -e il peggiore- piano regolatore della sua storia” (De Lucia). Di contro c’è chi sostiene l’esatto contrario “gli ambiti di programmazione strategica proposti dal Prg 2008 rappresentano perfettamente il necessario cambiamento tecnico e formale dell’urbanistica, esaltandone la dimensione progettuale, mettendo in discussione, senza smentirlo, il tradizionale approccio vincolistico, regolativo e valorizzandone la dimensione multiscalare”. (Oliva) . Un modello quindi meno rigido dell’urbanistica, che considera semplicistica l’accusa “pianificar facendo”.
Perché è proprio questa impostazione flessibile, non conservatrice e massimalista, che è stata in grado di dimezzare le previsioni urbanistiche residue del vecchio Prg del 1965 da 120 a 60 milioni di metri cubi, evitando di cadere in un vortice parossistico di ricorsi amministrativi ma valutando, al momento, la validità giuridica di ogni previsione residua di piano “in considerazione delle modifiche nel frattempo intervenute nell’ordinamento nazionale” (Oliva) quando sovraordinato a quello comunale (vincoli ambientali e paesaggistici). Ma al di là delle visioni talvolta ideologiche che sottendono le critiche e gli elogi al Prg appare evidente una sottovalutazione dei piani di edilizia pubblica, convenzionata, agevolata e sovvenzionata. Anzi per partorire il nuovo piano regolatore entro la scadenza del suo primo mandato il sindaco Veltroni secondo Paolo Berdini operò delle forzature procedurali che a suo dire furono la conseguenza di alcune scelte operate dal suo predecessore Francesco Rutelli. A lui Berdini contesta “il sostanziale svuotamento con il Piano delle Certezze di una delle principali conquiste del movimento riformatore romano e cioè la ‘Variante di Salvaguardia’ che aveva tagliato circa 40 milioni cubi di previsioni edificatorie”. Un’altra contestazione è quella di aver istituzionalizzato sempre all’interno del Piano delle Certezze lo strumento della “compensazione urbanistica” che di fatto attribuiva ai privati la possibilità di concertare l’individuazione di nuove aree urbane sulle quali far atterrare le cubature cancellate dalla Variante di Salvaguardia su ambiti vincolati ma da recuperare altrove. Così “la tutela paesista” osserva Berdini “non ha la facoltà giuridica di cancellare preesistenti destinazioni urbanistiche” e nasce invece “il concetto di diritto edificatorio che avrebbe accompagnato tutto il percorso dell’urbanistica romana”. Una terza criticità secondo Berdini è la “vasta sperimentazione dei cosiddetti programmi urbanistici complessi... basati sulla indiscrezionalità urbanistica” che -prosegue Berdini- sostituiscono “la logica del piano con quella del progetto urbano”. Era, secondo Berdini, la soluzione alla crisi dell’urbanistica che Rutelli prima e Veltroni dopo avevano individuato “nel pragmatismo e nel recupero della cultura del progetto”. Il piano era conservativo, il progetto era al contrario sperimentale, dinamico evolutivo per costruire una nuova forma di città più moderna e dotata di servizi. Per il Campidoglio la legge urbanistica 1150 del 1942 ancora vigente era troppo prescrittiva e ordinatoria e occorreva una scossa.
E in tal senso venne inteso lo strumento degli “accordi di programma” per dare attuazione ai piani complessi approvati dalla giunta e solo ratificati dal consiglio comunale che aggiravano in parte le procedure pubblicistiche previste dalla norma nazionale. A parte queste valutazioni sulle quali è possibile promuovere un confronto sopratutto sulla legge 1150, dalla quale ancora oggi siamo condizionati, è chiaro che nel nuovo piano regolatore di Roma fortemente voluto da Veltroni vengono inserite molte proposte di deroga necessarie per realizzare i piani di recupero urbano ma “in aperta contraddizione con quanto era previsto dalla pianificazione paesistica o da altri strumenti della tutela dei territori” e allora la Regione Lazio di Marrazzo corre in soccorso del nuovo Prg di Veltroni -ancora in fase di approvazione- e introdusse delle innovazioni legislative che di fatto capovolgono “la gerarchia delle fonti che vede la pianificazione urbana (del Comune) subordinata a quella paesistica (della Regione)”. La discrezionalità dell’accordo di programma fa sentire dunque i suoi effetti nel Prg con una forte flessibilità normativa del piano che si traduce in una serie di nuove norme tecniche di attuazione non sempre coerenti e univoche. Ciò ha prodotto scelte controverse nei tre ambiti urbani : della città storica, della città (periferica) della trasformazione, dell’agro romano che corrispondevano ai tre pilastri del piano regolatore di Veltroni di una tutela e rivalutazione del centro storico, di una riqualificazione e trasformazione delle periferie con le 18 centralità metropolitane e i Print, e dell’anello verde e dei parchi. Ad esempio nei Print, i programmi integrati di trasformazione, c’era un ampio spazio alla concertazione. Da un lato ciò avrebbe favorito la loro realizzazione ma dall’altro ci si accorse che paradossalmente si cadeva in un sistema-anche più complicato di quello che ci si prefiggeva di superare - di procedure e nuovi contenziosi amministrativi che bloccarono a lungo i progetti. Il Prg viene comunque approvato nel 2008 ed è in questa congerie normativa che noi non possiamo non intravedere una scelta assai debole per l’edilizia popolare convenzionata con tutte quelle criticità e incongruenze di cui si è già detto dovute anche alla cristallizzata normativa urbanistica nazionale . Un anno dopo, nel 2009, a modificare ancora una volta il quadro contribuisce il Piano Casa della Regione Lazio guidata da Renata Polverini poi prorogato nel 2014 senza modifiche sostanziali dalla giunta Zingaretti. Il Piano introduce la possibilità di ampliamento delle cubature per gli edifici residenziali o nell’ambito di interventi straordinari di sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione e ampliamento della volumetria o della superficie utile. Fatta per la premialità concessa ai piani particolareggiati e il divieto di applicare la nuova disciplina agli immobili ricadenti sulle aree agricole e a quelli ricadenti nei Parchi dotati di un Piano d’assetto, il Piano Polverini verrà assimilato quasi identico dalla giunta successiva di Zingaretti . Ma anche in questo caso assistiamo ad una certa attività nell’ampliamento del costruito e nel cambiamento di destinazione d’uso dei fabbricati ma c’è ancora troppo poco per l’edilizia popolare. I tempi dei grandi Piani ventennali di edilizia economica e popolare sono passati. Anche il Piano casa del dopoguerra, propugnato da Fanfani, appartiene ad una stagione irripetibile di grandi risorse e investimenti e neppure il Recovery Plan, che esprime una cubatura doppia di finanziamenti rispetto al celebre e citatissimo Piano Marshall, non sembra concentrarsi su un progetto di rilancio della edilizia pubblica e sulla rigenerazione urbana, sebbene i suoi asset siano quelli di una transizione ecosostenibile che dovrebbe giovare innanzitutto la qualità di vita delle persone anche sotto il profilo abitativo. Ma quali sono oggi i numeri della questione ? A Roma abbiamo circa 80 mila alloggi popolari, 48mila di proprietà dell’Ater (Regione) e 28mila del Comune. Coesistono dunque un patrimonio a gestione regionale e uno comunale. Ma è solo il Comune di Roma l’ente responsabile ad assegnare le case in base ad un bando che fissa alcuni precisi requisiti di reddito e una graduatoria. Il terzo municipio di Roma è quello col maggior numero di alloggi con circa 9000 abitazioni, seguito dal quarto con 7600 alloggi e il quinto con oltre 4000 case popolari. Meno presenti nei municipi settimo, dodicesimo, tredicesimo e quindicesimo. Attualmente, in base ai pochi dati disponibili, le famiglie in attesa di una casa sono circa 10mila ma il tasso di ricambio degli alloggi è di 500 alloggi l’anno e quindi solo per esaurire le attuali graduatorie ci vorrebbero decine di anni. E dunque evidente che solo attraverso nuovi piani edificatori si potrà dare una soluzione ad una emergenza abitativa che c’è ed esiste, e che l’amministrazione comunale deve poter affrontare concretamente. Credo allora che per il prossimo sindaco di Roma l’edilizia popolare sia una priorità. Personalmente credo che la nuova Roma alla quale pensano i cittadini debba porsi essenzialmente tre sfide : lotta al degrado ed emergenza rifiuti; turismo e valorizzazione del patrimonio culturale; e appunto un grande piano edificatorio per dare una casa a chi ne ha bisogno. Importante la testimonianza di Alessandra Carinci, segretaria provinciale di Ania che, dalla sua esperienza di Tor Bella Monaca, una zona di Roma con una significativa presenza di case popolari, scrive che “l’attuale situazione in cui vive il settore delle case popolari è a dir poco deplorevole. Le occupazioni abusive sono all’ordine del giorno e nonostante questo ci sono moltissimi alloggi chiusi. La lista per le assegnazioni è lunga ed è vecchia, e molte persone sono morte in attesa di ricevere la tanto sperata chiamata e altre, al contrario, reagiscono occupando le case.
Le nuove leggi, pensando di diminuire tali azioni, non prevedono di poter effettuare allacci regolari delle utenze, ma l’abusivismo triplica. Il 90% degli stabili sono fatiscenti, lasciati negli anni al loro deterioramento naturale, senza effettuare un minimo di manutenzione. Gli utenti regolari, sono pochi, la conoscenza della materia è scarsa, e molti vengono assistiti da associazioni non professionali oppure, per sentito dire, a volte si trovano con situazioni irregolari pur essendo potenzialmente nelle condizioni di regolarizzarsi. E inoltre la morosità è un grave problema sia per l’Ente che per gli utenti. Controlli e verifiche molte volte sono state superficiali; chi con un canone minimo non ha mai pagato, tanto nessuno viene mandato via, oppure persone che per anni hanno avuto un Cud cospicuo, superiori ai limiti previsti per l’accesso, per i quali il canone non è aumentato e dopo 5/10 anni si trovano morosità improponibili. E poi situazioni dove non si cancellano i figli, comunicandone l’uscita, anche quando cambiano residenza nel proposito poi di rientrare nell’alloggio successivamente, pur non avendone più titolo. Chi per malattia o ‘vacanze’ forzate, salta i censimenti, a volte anche per semplice noncuranza, si trova da conduttore regolare ad occupante senza titolo, e ciò lo capiscono solo quando arrivano in seguito fitti spropositati. Negli ultimissimi tempi un pò di luce si riesce a vedere grazie alla nomina del nuovo Direttore Generale dell'Ater Andrea Napolitano il quale sta cercando di riqualificare vari quartieri, con ristrutturazioni, sanificazioni degli stabili, emettendo diffide di morosità, curando le alienazioni, tutto questo in pochissimi anni. E prendendosi il carico di una eredità molto pesante lasciata dalle precedenti amministrazioni, sta riuscendo dove gli altri non avevano mai messo mano, come ad esempio la sanatoria”. Fin qui la segretaria di Ania. E ancora: alcuni avvocati del settore sottolineano che le leggi, che si sono susseguite negli ultimi anni riguardo all’ampliamento del nucleo familiare, includono -per quanto al subentro- anche i parenti di secondo grado e affini (art 12 LR 12/99 modificato dalla dalla LR 13 del 2018); e a ciò si aggiunge la sanatoria che intende regolarizzare le moltissime posizioni degli occupanti senza titolo a danno e a dispetto delle persone che attendono da anni lo scorrimento delle graduatorie presso i comuni di riferimento. Questa operazione, tutta politica, oltre a rendere un alloggio popolare trasmissibile di padre in figlio e ora anche a nipoti e affini, si è conclusa (per Roma) con l’invio di una proposta transattiva ai morosi per l’abbattimento di una copiosa percentuale delle somme dovute all’Ente gestore. Un po’ di luce in fondo al tunnel dunque si vede ma è ancora davvero troppo poco.