Roma

Il nome della rosa: i segreti svelati dalla fotografia. “Serie tv senz'anima"

Il racconto di uno dei protagonisti del Il nome della rosa: “Per realizzare quel film ci volle un esercito”

di Patrizio J. Macci

Oscar (il nome è di fantasia per proteggere la sua privacy) ha lavorato per sedici settimane sul set de “Il nome della rosa” negli anni Ottanta, la pellicola che arrivò in sala con l’approvazione di Umberto Eco nel 1986. Il film con Sean Connery ha avuto dal 1988 al 2001 il primato di ascolti su Rai 1 con 15 milioni di telespettatori.

Il più grande set mai realizzato dai tempi di Cleopatra, 17 stesure della sceneggiatura 300 monasteri visitati per realizzare le scenografie, cinque anni di lavoro e un budget che rischiava di essere sforato in continuazione. Il signor Oscar ha accettato di raccontare dettagli inediti dal suo salotto di Roma nord dove troneggia uno schermo da cento pollici e una copia in francese del romanzo con la firma dello scrittore bolognese e del regista del film.

Oscar, innanzitutto lo rifarebbe? E di cosa si occupava esattamente sul set de Il nome della Rosa?
“Sarebbe impossibile ripetere un’avventura simile. Ora tutto è affidato alla tecnologia digitale e alla preparazione maniacale degli eventi. L’algoritmo si è impossessato anche del cinema. Sul nostro set, dove io mi occupavo della fotografia fu un vero miracolo quello che avvenne. Per capirci ero una delle penultime ruote del carro ma ho lavorato nel cinema per mezzo secolo. Per realizzare quel film ci volle un esercito. In alcuni giorni c’erano riprese con più di mille persone presenti. Parlo di tecnici, artigiani e maestranze. Noi lavoravamo con matita, carta, legno, e attrezzi. Il regista con penna e blocchi per annotare lo storyboard delle scene".

Perché parla di miracolo?
“Perché gli imprevisti saltavano fuori in continuazione e il regista Annaud era puntiglioso al micron, aveva chiesto la consulenza del più grande medievalista vivente (Jacques Le Goff) e non voleva essere pizzicato a filmare anacronismi. Ma a Cinecittà…lì si compì il miracolo. Annaud voleva un’abbazia scura, con l’umidità sui muri, sporcata dal tempo. Solo alcune scene sono state girate in un’abbazia tedesca, quelle che sono arrivate integre ai nostri giorni sono troppo luminose, le pietre sono state sbiancate dai restauri. Il miracolo ci fu davvero perché la scena iniziale dell’arrivo all’abbazia (girata nel Lazio) rischiava di saltare: era finita la neve finta e il budget per i cannoni che creano una coltre artificiale era esaurito. Nevicò su Roma e dopo ventiquattro ore avevamo l’effetto a macchia di leopardo che serviva e la giusta luce”.

Che accadde nella mecca del cinema a via Tuscolana?
“Eco aveva raccontato il labirinto della biblioteca per sommi capi, gli artigiani dovevano realizzarlo e noi illuminarlo per le riprese. Dante Ferretti dovette far disegnare alcune frecce nel finto labirinto perché alcuni operai si perdevano, aveva preso spunto da alcune stampe del Piranesi e dai disegni di Escher. Sembra facile ma provate a immaginare come costruire una finta lampada a olio del Quattrocento e a dove nascondere le batterie per alimentarla. Faceva un freddo cane sul set, il regista voleva che i personaggi avessero volti sofferenti, scavati emaciati. Si rifiutò di riscaldare le riprese in esterno con ogni scusa”.

Sean Connery non veniva da grandi successi in quel momento, la sua carriera aveva subito uno stop. Il nome della rosa lo rilanciò e ottenne la parte in Gli Intoccabili subito dopo. Come affrontava il lavoro sul set?
“Aveva studiato come un secchione, con grande umiltà si era immerso nello spirito del libro che aveva letto diverse volte. Aveva capito che poteva giocarsi la carriera. Aveva un’unico vezzo sul quale non era disposto a scendere a patti: nelle scene nelle quali è inquadrato dalla vita in su indossa degli stivali americani sotto il saio che poi, seppi da un tecnico audio, diedero qualche problema in fase di montaggio perché producevano un curioso rumore quando camminava. Fu l'unico ad avere questo privilegio.”.

Veniamo al suo pane, la fotografia, quali erano i modelli di ispirazione per la luce?
“Qualcuno scrisse che nel film il Medioevo è rappresentato come uno stereotipo: i frati sarebbero brutti sporchi e cattivi e la fotografia "scura" in maniera eccessiva. Tonino Delli Colli ci mostrò tele di Bosch, Bruegel quelli erano i modelli di riferimento. L’abbazia nel film è in decadenza, e i frati trascorrono la maggior parte del loro tempo al chiuso e l'olio per le lampade era prezioso. C'era poco da ridere in un ambiente simile. Senza contare che quel tipo di luce fa concentrare lo spettatore sull’interpretazione dei  protagonisti. Guardando in viso Connery nessuno pensa a James Bond ma a Sherlock Holmes in un monastero. Me ne sono reso conto anche io quando  ho rivisto il film al cinema".

L’ultima domanda è quella delle cento pistole: ha visto lo sceneggiato televisivo?
“Pochi minuti ma mi sono bastati: è un prodotto figlio del digitale dove tutto è affogato nella luce, per carità è fatto molto bene ma a me sembra senza cuore. E’ freddo. Il nostro era un classico prodotto del genio italiano anche se eravamo una coproduzione e sul set si parlavano una babele di lingue. Non è stato un miracolo italiano la sua realizzazione, ma un “miracolo all’italiana”.

Le racconto un’ultima cosa. Sul set di Cinecittà si affacciavano spesso gli uffici stampa di alcuni produttori americani. All’inizio ridevano perché pensavano che fosse un'impresa folle. Dopo sei mesi videro il labirinto della biblioteca terminato e correvano a scattare una fotografia con le mura medievali come sfondo. Le spedivano in America sotto  forma di cartolina come veri e propri archeoselfie”.