Roma

La malattia delle nanoimprese.Il Sud sta peggio della Grecia

di Giancarlo Elia Valori *


La separatezza tra governanti e governati è un tratto tipico dell'analisi politologica contemporanea. Ma una cosa è la distanza, altra la cognizione della realtà dei fatti, appunto la “realtà effettuale della cosa” raccomandata dal Machiavelli. Oggi sembra che la sola distanza tra i “primores” e i comuni cittadini sia la fonte di ogni male e di tutte le distorsioni della vita politica, ed è da qui che nasce quello che alcuni ingenui politologi della domenica chiamano “populismo”.
Invece, ritengo che la tanto vituperata distanza sia una questione di conoscenza della realtà effettuale del nostro Paese, che è ancora prigioniero di tanti miti: dal “piccolo è bello”, il paradiso delle Piccole e Medie Imprese, al mito dell'altissimo risparmio delle famiglie al mito, ancora, della grande espansione delle nostre esportazioni.
Vediamole, queste letture deformanti della realtà ormai critica del nostro Paese.
Se è vero che la situazione è recentemente (ma di poco) migliorata per le Piccole e Medie Imprese, tutti i dati dei centri di analisi riflettono dei risultati non ancora al livello di quelli precedenti alla crisi. Ritenere poi un aumento, chissà come calcolato, del PIL nazionale dello 0,3% come la dimostrazione della sbandierata “uscita dalla  crisi” è davvero eccessivo. D'altra parte, l'informazione drogata e lo “spin” informativo dei media sono tali e talmente diffusi che ogni cosa si può agevolmente trasformare in un'altra. Vale il sentiment, la “percezione”, la sensazione, l'opinione, tutto ciò che porta fuori dalla realtà effettuale ma manipola la psiche.
Mussolini teneva sul comodino la “Psicologia delle Folle” di Gustave Le Bon, oggi la  comunicazione politica, in Italia come altrove, è capace, come afferma uno dei 36 Stratagemmi cinesi, di “far sorgere qualcosa dal nulla”. Si noti bene, poi, che anche le nuove prospettive di crescita delle Piccole e Medie Imprese si basano su “percezioni” e “sensazioni” dei loro titolari.
Vediamola questa realtà: dal 2007 ad oggi, secondo il Cerved, 13mila aziende italiane sono fallite, 5mila hanno avuto una procedura concorsuale non fallimentare e 23mila sono state liquidate volontariamente. Quelle sopravvissute hanno comunque perso 31 punti di Margine Operativo Lordo e più che dimezzato la redditività, passata dal 13,9% al 5,6%. La retorica governativa e dei media parla di un modo eroico e genericamente in crescita delle PMI, ma qui, come risulta facilmente da una analisi delle statistiche  ufficiali, si staglia una nuova divisione del nostro Paese, abituato alle asimmetrie di sviluppo e alle arretratezze strutturali e sistemiche. Gli analisti le chiamano “imprese gazzelle”, ovvero quella quota delle PMI italiane che, essendo intorno al 4% del totale, molto poche in verità, hanno raggiunto nell'ultimo anno di esercizio censito quasi un raddoppio del fatturato. Le “gazzelle” sono in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, ecco perché parlavo della riproposizione di una nuova “questione meridionale”.
A proposito del nostro Sud, la situazione è critica, peggio che critica.
Quando c'era la troppo vituperata Prima Repubblica il Sud era al centro dell'attenzione di tutto il sistema politico. Oggi sembra sparito dal discorso, dalla retorica e dagli interessi di una ben più modesta classe dirigente. I dati raccontano una tragedia. L'ultimo rapporto SVIMEZ ci dice che, posto che l'Italia è il Paese che è cresciuto di meno dall'introduzione dell'Euro, ossia il 20%, il nostro Sud è cresciuto solo del 13%, con una media europea del 37,3%.
L'Italia è cresciuta meno della Grecia e il Sud è cresciuto la metà della Grecia. E le sue condizioni di vita sono quasi peggiori di quelle inflitte alla Grecia dalla Trojka UE-Banca Mondiale-Banche Creditrici. L'Italia non reggerà nemmeno per un minuto, se il Sud dovesse incendiarsi. E si ricordino, i “federalisti” più convinti, che quell'incendio si
appiccherebbe immediatamente al Nord.
Consiglio agli attuali governanti, prima che sia troppo tardi, la lettura dei nostri
migliori meridionalisti, da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini e Guido Dorso e magari Antonio Gramsci, questo sconosciuto. E sarebbe bene non dimenticare mai la figura di Francesco Compagna, il barone repubblicano che fondò una delle più belle riviste del dopoguerra, “Nord e Sud”. Questa è cultura, non “immagine” e nemmeno “comunicazione”. Non basta Jovanotti, per governare, e nemmeno Lucio Battisti, che era meglio.
Ma, se non vogliamo che la questione meridionale si riproponga con una sollevazione di massa diretta dalla malavita organizzata, come è peraltro già successo, sarà bene correre ai ripari, magari leggendo anche Ernesto De Martino, il mitografo del Sud, o il grande Danilo Dolci, che scoprì, perfino prima di Leonardo Sciascia, la “mafia dell'antimafia”.
La crisi iniziata con il crollo di Lehman Brothers negli USA, nel 2008, ha portato via al Mezzogiorno ogni speranza: negli ultimi sette anni la produzione industriale al Sud è diminuita del 59,3%, tre volte in più rispetto al resto d'Italia.
L'agricoltura, asset storico del Meridione, si è contratta del 38% e il terziario, il fatuo mito del secondo millennio, si è ridotto del 33%. I posti di lavoro persi nel Sud, nel 2014, sono 45mila mentre quelli aumentati al Nord sono 88mila. E il JobsAct vale ovunque, è bene ricordarlo. Quindi, tra le altre possibili crisi strutturali, si ripropone, in tutta la sua gravità, quella derivante dall'arretratezza economica del Sud.
Per quel che riguarda il bilancio pubblico, vale la stessa ipotesi che abbiamo già svolto sopra: un governo e un sistema politico che vivono in una realtà immaginaria, lontano dalla realtà effettuale della cosa di origine machiavelliana. Oggi siamo al 136% del rapporto debito pubblico/PIL mentre nel periodo corrispondente (secondo trimestre 2014) il rapporto era al 133,8%. Al 27° posto in Europa. Il Prodotto Interno Lordo cresce dello 0,8%, mentre tutto il resto dell'area Euro cresce del doppio.
Cosa fare, quindi? Utilizzare l'espansione del rapporto debito/PIL, che non sappiamo se sarà accettata in toto dalla UE, per espandere la base industriale del nostro Paese. “Creare” nuovi posti di lavoro è una espressione demagogica che non ha alcun senso in economia. Si creano posti di lavoro nuovi quando aumenta la dimensione e il
numero delle imprese attive. Quindi, aumentare la base produttiva, troppo ristretta e spesso in crisi, dell'Italia.
Il trionfalismo su questo o quell'imprenditore innovativo ci fa dimenticare che, molto semplicemente, la base industriale e produttiva di questo Paese è ridotta ai minimi termini ed è spesso, in molti settori, insufficiente. Un'Italia deindustrializzata, il sogno degli ingenui teorici delle “decrescita felice” che diventa l'incubo dei nuovi, innumerevoli disoccupati e dei redditi più bassi.
Secondo Eurostat, la disoccupazione è al 13,2% mentre quello della disoccupazione giovanile è oggi diminuito dal 43,3% al 39,8%. L'unico modo di risolvere il problema è aumentare la base produttiva, con finanziamenti pubblici se occorre, o utilizzando al meglio e integralmente i fondi UE. I finanziamenti europei regionali vanno dai 413 milioni per la Basilicata ai 4,55 miliardi per la Sicilia; e comunque sono sempre tali da fornire una buona base per l'innovazione aziendale. Occorre un cofinanziamento pubblico italiano tale da innescare, insieme ai fondi UE, un ciclo virtuoso di espansione delle aziende, che è l'unica chiave per uscire dalla spirale della crisi.
Poi, un maggiore tasso di identità nazionale e di fierezza per la nostra Patria e le nostre tradizioni. La tendenza prerisorgimentale al servaggio verso lo straniero, all'autoemarginazione, alla autodenigrazione, al mito di una Italia sempre in debito verso le altre potenze europee deve assolutamente cessare.
La nostra Repubblica, rispetto agli altri Paesi UE, non ha nessun difetto che non sia rintracciabile, spesso in dimensioni maggiori, in altri Paesi europei.
Quando abbiamo ricreato l'industria di Stato, nel secondo dopoguerra, sapevamo di dare fastidio a molti nostri alleati, ma comunque siamo andati avanti, con le nostre autostrade che hanno unito Nord e Sud per la prima volta, con la nostra ENI che ha di fatto espulso Gran Bretagna e Francia dal Mediterraneo energetico, con la nostra
chimica detentrice di molti e preziosi brevetti. La privatizzazione di alcuni di questi settori ha in parte distrutto il loro potenziale innovativo, ma è proprio questo il punto. Non esiste infatti una rete di Piccole e Medie Imprese che viva da sola, senza una serie di “fratelli maggiori”, di grandi aziende che la copra, la protegga e generi domanda quando il mercato internazionale cala.
Ridurre l'Italia a un tessuto di PMI e addirittura di microimprese senza provvedere alla loro tutela industriale, tecnologica e politica è stato un errore colossale.
Creare “campioni nazionali”, far crescere PMI fino alla dimensione di grande impresa, sarebbe stata una linea obbligata, per chi sapesse cos'è la politica industriale. Abbiamo avuto la retorica del “piccolo è bello”, l'ingenuo economista Schumacher letto in ritardo, come al solito.
Da qui discende il dramma del sistema bancario italiano, mal diretto, spesso mal gestito e, soprattutto, in ingenua adorazione delle “regole” UE, che i nostri politicanti a Strasburgo e Bruxelles non hanno saputo trattare con gli altri Paesi, che hanno interessi diversi. Le regole di Basilea sono state adottate ingenuamente, e non sono affatto adatte ad un tessuto produttivo come il nostro.
Poi, come sosteneva Guido Carli, quando una Banca è in difficoltà, serie difficoltà, la si salva, con denaro pubblico, per evitare il contagio e per sostenere i depositanti. Poi, diceva Guido Carli, ci si sfoga con i responsabili, è chiaro, ma il salvataggio va fatto, per evitare il peggio.
Altro che teorizzare un carico per i contribuenti, secondo la debole giustificazione UE: quanto costerebbe, a parte il fisco, l'effetto a caduta del sistema bancario, unico sostegno alle imprese?
E' bene che i burocrati europei si studino i testi di Federico Caffè, il maestro di Mario Draghi, oppure i libri degli economisti cattolici che parteciparono al Codice di Camaldoli, come Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, Mario Ferrari Aggradi.
Forse troverebbero meno equazioni pasticciate su mercati ideali o aziende perfette, ma certamente vi troverebbero grandi, pratiche ed efficaci idee su come generare e innescare lo sviluppo economico.

* Honorable de l’Academie des Sciences de l’Institut de France