Roma
“La piega del tempo”, racconti di Adriana Soares come dipinti di luci ed ombre
Su Affaritaliani arrivano i racconti tratti da “La piega del tempo” di Adriana Soares
Adriana Soares, artista eclettica che si esprime nelle diverse arti della fotografia, della pittura, della poesia e della scrittura, debutta da oggi su affaritaliani.it con la rubrica “La piega del tempo”, una serie di racconti estratti e ispirati da alcune delle sue opere.
Chi è Adriana Soares
Adriana Soares è nata a Rio de Janeiro, vive a Roma dall’età di 11 anni, dove è cresciuta ed ha concluso gli studi linguistici. Artista eclettica che si esprime nelle diverse arti della fotografia, della pittura, della poesia e della scrittura. Alcune sue opere sono permanentemente esposte presso la sede generale di Banca Generali a Roma, via Bissolati, 76. Continua il sodalizio tra Arte e Finanza con Banca Generali, con un importante evento nel prossimo autunno. È anche pubblicista. Cura rubriche di Bon Ton su alcune testate. Rappresentata dalla prestigiosa agenzia fotografica “Art and Commerce/ Vogue” di New York. Nel 2018 espone delle sue opere fotografiche a Tokyo in collaborazione con Vogue Giappone. Dal 2017 pubblica le sue prime raccolte di poesie, storie, leggende e racconti per bambini. Dal 2019, l'autrice inizia una nuova stagione narrativa con la pubblicazione di racconti per i più grandi. È in pubblicazione nel prossimo autunno l’ennesima fatica letteraria dell’autrice, giunta alla sua nona pubblicazione, con il suo primo romanzo intitolato: ”Presenze invisibili a Quixada”. Lo scritto è un thriller psicologico laddove il crimine e la sua espiazione possono rappresentare un nuovo inizio.
Una pura formalità
Era una semplice domenica pomeriggio di agosto. Una di quelle desolate, in cui in città rimangono in pochi a godersi il silenzio o a far compagnia alle cicale. Roma nord si era svuotata dal caos quotidiano, un po’ come capita ai luna-park di lunedì mattina. Le strade, come delle immense lastre di metallo, sembravano riflettere la luce spettrale di un sole inclemente. L’aria era gonfia d’umidità. Il cielo era basso ed opprimente. Si stava preparando il tipico temporale di fine estate. Qualche macchina passava distratta, e si sentivano ogni tanto degli allarmi di qualche abitazione spezzare quello strano silenzio. Un silenzio vacuo di quando ha appena nevicato. L’aria era carica dell’odore di pioggia e terra bagnata che arrivava da lontano. Ernesto decise di salire le scale della chiesa in stile fascista: fredda, monumentale. Guardò il cielo, ma non lo trovò subito, per via dell’alta ed imponente facciata; una montagna violenta a strapiombo. Si sentì schiacciare, gli mancò il fiato e un senso di vertigine lo pervase. Si sentiva immensamente piccolo e questo non gli piaceva. Così, lasciò alle sue spalle una città in sospeso. Non si sentiva bene, forse era per l’eccessivo caldo e quella pesante coltre di umidità che lo soffocava.
Era più come una mano che gli si stringeva intorno al collo, che l’aria calda e gonfia d’umidità che gli ostruiva le vie respiratorie, portandolo a respirare a bocca aperta, come fanno i cani con la lingua di fuori.
Il sudore scorreva dalla sua fronte sugli occhi, che si aprivano e chiudevano per riuscire a vedere, ma la salinità del sudore gli bruciava gli occhi.
- “Mi è finito il collirio, tornando mi fermerò in farmacia.” Pensò Ernesto.
- “L’whisky. Devo ricomprarlo, è finito anche quello. Quella sbadata di mia moglie non si è ricordata di rifornirmi. Come al suo solito! Pensa solo a se stessa e mi propone la medesima sbobba ogni giorno da cinquant’anni.
Mi domando dove vanno a finire i soldi. È una lamentela continua. Mi dice che non esco mai di casa e che sono un uomo-poltrona. Ecco, vedi? Oggi sono uscito nonostante il caldo di agosto.
Mi sento male, voglio tornare a casa, sto collassando. Meglio entrare in chiesa, forse sarà più fresco lì dentro. Riprendo fiato prima di tornare a casa. Chissà cosa troverò per cena. Che schifo di vita mi rimane!” Pensò Ernesto facendo una smorfia di disgusto e aggrottando le sopracciglia. I suoi occhi erano più neri del solito. Neri come l’inferno e arrossati dal sudore.
Entrò nella chiesa con un certa riluttanza, seguito dalla calura opprimente di un pomeriggio estivo e dalla vastità del silenzio di una domenica d’ agosto in città. Entrò, e fu accolto dall’odore d’incenso e di candele accese da tempo, nello smarrimento del loro estinguersi tra le lacrime candide di cera sciolta.
Ernesto non era un cattolico praticante, anzi, le sue rare visite in chiesa si erano limitate a discussioni di filosofia del nulla col parroco.
I suoi erano più dei monologhi che uno scambio di idee e visto che le sue idee erano un tantino estreme, il parroco dissentiva e si finiva a male parole.
Ernesto a seguito di una pseudo confessione per il suo cinquantesimo anniversario di matrimonio, si era convinto che i preti erano tutti dei corrotti.
E non mise più piede in chiesa.
Entrando, notò che era in atto una funzione funebre.
La salma dentro la cassa, era in attesa; aspettava che tutto si concludesse in fretta e furia.
Avrebbe desiderato, forse, più presenze, più pensieri e cuore, ma era solo.
Una bara tetra, cupa, spoglia, che troneggiava di fronte all’altare, mentre il parroco celebrava le esequie.
Si sedette all’ultimo banco per non sentirsi obbligato a restare fino alla fine della funzione ed esser pronto a scappare in qualsiasi momento.
Nessun fiore, nessun messaggio, nessun segno di affetto figliale o coniugale. Nulla.
Solo un vuoto assordante.
Il suo era solo un modo per rinfrescarsi da quel caldo opprimente che lo stava asfissiando.
Non gli era mai piaciuto il caldo, ma quel giorno era particolarmente insofferente ed assetato. Forse, perché non aveva chiuso occhio e sentiva la testa scoppiare.
Sentiva la gola secca e la lingua gli si attorcigliava dentro la bocca come un verme sotto sale.
- “Solo un attimo.” Si disse.
Un senso di nausea pungente, accompagnato da vari capogiri, lo fece star peggio.
Il caldo e la nausea lo portavano a muoversi sulla panca come se fosse seduto su delle braci ardenti.
Il parroco, quasi imbarazzato, iniziò la funzione, mentre guardava i becchini che si aggiravano fuori, non avendo un punto di riferimento sulla destinazione della salma e chi contattare per il pagamento del loro lavoro.
Nessun familiare, solo il morto in chiesa. Ad un tratto, il parroco iniziò il suo sermone con la benedizione della salma con l’incenso accompagnato dal padre nostro. Ernesto stava per vomitare, avrebbe voluto scappare. Si sentiva sempre peggio. Alzando la testa, incrociò lo sguardo del terzo e unico tra i presenti a parte lui, accompagnato presumibilmente da sua moglie. Non contavano i visitatori stranieri che si aggiravano perplessi per le navate della chiesa monumentale.
Erano vestiti in modo sconveniente allo sguardo schifato e critico di Ernesto.
- “Non ci si può credere. Che scristianizzati! Una vergogna!” Pensò Ernesto.
- “Non ci si veste così in chiesa! Screanzati! Vergognatevi!” Gridò contro una famigliola di turisti americani. Che lo ignorarono totalmente!
Riconobbe il suo unico amico rimastogli dall’infanzia e sua moglie Cristina, una donna prepotente e comunista. Ernesto l’aveva sempre disprezzata. Avrebbe voluto alzarsi per andarli a salutare, ma preferì di no. L’avrebbe fatto dopo. Si guardò intorno e, sconcertato, si scoprì solo. Solo una vecchia in ginocchio che gli dava le spalle due file più avanti.
La grande, lucida, cassa da morto era lì, immobile, pesante, in attesa.
- “Che strano è il destino: tutto è un’attesa.” Pensò accigliato.
Alcun fiore o messaggio a lenire il duro destino di quel morto che giaceva freddo, al suo interno.
Com’era possibile che fosse stato solo al mondo, alcun parente, alcun dolente a presenziare a quel funerale.
- “Sarà stato proprio uno stronzo!” Pensò Ernesto con disgusto.
- “Sarà il funerale del figlio pederasta di Nino. Ma essendosi suicidato, non gli avrebbero celebrato le esequie. Si vedeva che era uno strano, un molliccio. Solo un debole di testa avrebbe potuto uccidersi. Poi in quel modo! Mah...
Proprio assurdo! Avrebbe potuto scegliere un modo più veloce e pulito per suicidarsi. Invece, ha scelto un modo scenografico e da matto: buttandosi sotto un treno. È stato un modo egocentrico di andarsene. Mah...non è possibile che il funerale lo abbiano fatto solo ora, visto che sono passati anni dall’accaduto!” Ringhiò a denti stretti Ernesto. Continuava a guardarsi intorno cercando, ma non sapeva cosa. Si asciugò la fronte e agitò la camicia su e giù per procurarsi un po’ di fresco. Senza però alcun lenimento. Sentiva bruciare i piedi dentro le scarpe usurate e logore. Non capiva perché fosse così mal vestito.
- “Maledizione! Ora vomito davvero!” Gridò Ernesto con la mano davanti alla bocca.
Era al limite della sopportazione mentre gli addetti della dita funebre si aggiravano per la chiesa pensierosi.
Pensavano alla trafila burocratica che li stava aspettando. Gli avrebbe pagati il comune, visto che alcun parente si sarebbe fatto carico della spesa di quel funerale. Sembra che fosse una famiglia più che benestante, almeno sembrava, avendo visto la casa ai Parioli; un attico di trecento metri quadrati.
- “I suoi parenti lo detestavano.” Mentre si attardava con questi pensieri, non proprio consoni a un funerale, si fece il segno della croce. In effetti non era solo business.
Il parroco si agitava, cercando di affrettare l’omelia, limitandola al massimo. Nessuno si sarebbe aspettato un sermone memorabile o sentito.
Nessuno si sarebbe lamentato. Di certo, il morto non l’avrebbe fatto.
Con la sua magra figura e col volto annoiato, proseguiva frettolosamente con le sue preghiere ormai senza senso.
- “Non voglio stare qui!” Affermò improvvisamente in modo perentorio Ernesto con lo sguardo senza umidità, tra i fumi lenti dell’incenso benedetto.
L’odore forte di erbe secche si trascinava in quel denso fumo grigiastro. Ardeva ammutolito dopo quasi un secolo di silenzio, dopo aver tanto parlato. Le luci delle candele apparivano timide e tremolanti. Quell’odore di cera sciolta gli era del tutto indifferente. Fuori dalla chiesa, il sole cercava di squarciare le nuvole per mostrare un timido luccichio di vitalità. I giardini erano secchi, tanto da mostrare la terra consumata e asciutta, snodandosi in mille pieghe. La terra invecchia velocemente. Ma, allo stesso tempo, si rigenera in nuovi colori dal mistero delle sue profondità benedette.
La terra continuerà a girare lentamente, inesorabilmente e stancamente, morendo. Un piccolo essere nascerà ancora e poi ancora, per sostituire il vecchio, come in un sospiro spezzato e profondo, un ultimo rantolo e poi il nulla. Così, in quell’attimo, tutto sparirà.
Nessuno piangeva il morto steso e freddo, in solitudine dentro a quella bara di legno nero di poco conto. Ernesto rimaneva lì, immobile, perso nel fumo dell’incenso denso e grigio, tra le luci tremolanti delle vecchie candele lacrimose.
Era lì in mezzo ad un funerale di un estraneo, appeso come un animale spento che con rabbiosa voracità infila le sue lunghe unghie scintillanti nelle proprie pupille, fino a raggiungergli il cervello.
Come fanno i ragni che rannicchiano le otto zampe abbassando le palpebre e raccogliendo le unghie in un solo punto, dopo aver ridotto l’occhio a una poltiglia rossa e liquida. Nino continuava a girarsi verso l’uscita della chiesa e si guardava intorno, cercando con lo sguardo qualcuno di familiare. Ma nessuno sarebbe giunto e il silenzio resterà pieno e immobile. Il suo sguardo era affondato tra le numerose rughe e l’alone nero dalla stanchezza. Ernesto guardava anche lui fuori della chiesa, ma cercava un paesaggio familiare. Fuori si stava facendo buio, anche se sapeva che era troppo presto per il tramonto. Le nuvole erano talmente basse da oscurare il paesaggio.
- “Dov’è il sole?” Pensò.
Tutto si stava oscurando e continuava a far caldo.
Quell’oscurità penetrava dentro alle sue ossa, avrebbe voluto dissolversi e sparire. Non voleva pensare, non avrebbe potuto. Troppo caldo! Un grande vuoto dilagava dentro la sua testa troppo piena di nulla. Una raffica di vento impetuoso e un frastuono ruggirono all’improvviso fuori, entrando dentro le porte della chiesa, in un vortice di terra e foglie che si aggiravano tormentosamente alle sue spalle atterrite, scheletriche ed asciugate dalla vecchiaia ormai quasi centenaria. Il vento ruggì ancora impetuoso, carico di odore di pioggia e terra bagnata e poi se ne andò sotto lo sguardo atterrito dei presenti.
- “Affrettiamoci, sta per venire il finimondo!” Affermò perentoriamente il prete senza riguardo verso il morto ed i presenti.
Ernesto, dolorante, assetato e grondante di sudore, saltellò letteralmente sul posto ed ormai non poteva più aspettare il suo amico Nino.
- “Vado via. Non mi interessa sapere chi è morto. Sono sfinito dalla stanchezza e dal caldo!” Si disse Ernesto. Cercò il deambulatore ma, in effetti, ne era privo. Cosa assai singolare, senza quell’affare non si sarebbe mai potuto muovere.
Non vedeva l’ora di aprirsi la bottiglia di whisky nuova che avrebbe acquistato, davanti al suo nuovo schermo piatto di sessanta pollici.
Quella sera, inoltre, avrebbe visto la sua serie preferita: Grey’s Anatomy.
- “Maledetto caldo, che sia maledetto questo mal di testa, che sia stramaledetto questo senso di nausea!” Ruggì sputando per terra.
Mentre stava per alzarsi, il prete alzò la voce, catturando la sua attenzione.
- “Polvere alla polvere, che la terra ti sia lieve. Che Ernesto Giusti riposi in pace!”
Non una parola, non un pensiero.
Solo un’espressione di orrore sul volto deturpato di Ernesto.
Era notte.
Era tardi.