Roma

Mafia Capitale e Mondo di mezzo: ecco l'ingiustizia che ha sfregiato Roma

La scarcerazione di Massimo Carminati “conseguenza dell’errore dei giudici che hanno forzato una sentenza d’appello sbagliata”. L'analisi di Andrea Augello

di Andrea Augello

Si è dovuta scomodare la Cassazione per dire che no, proprio non era Mafia Capitale. Non lo era neppure lontanamente, perché la storia di corruzione, favori e clientele costruita intorno agli interessi di una cooperativa sociale rossa, fino a quel momento additata dalla stampa cittadina, dalla politica veltroniana e dall’associazionismo progressista, come un modello di redenzione e reinserimento degli ex carcerati, non aveva nulla a che spartire con le cosche, con i capi regime, con i soldati dei mandamenti e infine con la capillare penetrazione nello Stato, tipica delle associazioni mafiose.

A quanto pare neppure il cattivo per eccellenza, Massimo Carminati, era mafioso: ex “cassettaro” nel caveau di Piazzale Clodio sì, “cecato”, come amabilmente lo hanno definito i giornali per via dell’occhio perduto in gioventù, in un conflitto a fuoco con la polizia, sì, estorsore e criminale sì - ma capiremo meglio in che misura quando verrà celebrato nuovamente l’appello - ma mafioso no. E per quanto molti ora gridino allo scandalo, tra questi persino il Ministro Bonafede, sotto il cui dicastero almeno tre mafiosi veri e accertati hanno ottenuto la libertà antinfluenzale, la sua scarcerazione è una mera conseguenza dell’errore dei giudici che hanno forzato una sentenza d’appello sbagliata, consentendogli ora di invocare la decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Se dunque il Ministro oggi invia i suoi ispettori, il loro compito non dovrebbe essere “ispezionare” la decisione, inevitabile, del Tribunale del riesame, di scarcerare Carminati, ma l’operato di chi ha fabbricato una sentenza sbagliata e soprattutto ingiusta. Non solo e non tanto nei confronti degli imputati, ma rispetto all’intera città, degradata per anni da un marchio di infamia che non meritava e che ha accelerato il suo declino, colpita da un danno di immagine su cui ha prosperato un fiume di superficiali inchieste della stampa internazionale, dallo stridulo moralismo mezzo scimunito di eroi da operetta che fingevano che amministrare Roma fosse una sfida a chissà quali cosche, dalla produzione di film e serie televisive che raccontavano angosciosi intrecci di omicidi, mazzette, prostituzione, descrivendo così una Capitale rispetto alla quale le amministrazioni di Sodoma e Gomorra rappresentavano un modello di moderazione e trasparenza.

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Il che non giustifica certo alcun episodio di corruzione, né scagiona gli imputati dagli altri reati commessi, né autorizza i partiti che furono coinvolti a evitare una seria autocritica,né incoraggia le istituzioni ad abbassare la guardia rispetto al rischio che possano ripetersi situazioni di questo genere. Nulla di tutto ciò può essere rimosso, ma un gigantesco interrogativo rimane sul campo: possibile che nessuno abbia almeno il pudore di scusarsi di un errore giudiziario tanto catastrofico e gratuito? Nessun magistrato, nessun ex procuratore, nessun editorialista, nessun regista, nessuno tra i moralizzatori de noantri, che al grido di “Onestà, onestà” alla prima prova di governo cittadino ha già collezionato avvisi di garanzia, arresti, indagini e un Vice capo di Gabinetto approdato a una prima condanna. Mentre sui Cinque stelle pendono queste inchieste - che fino a sentenza definitiva lasciano impregiudicato il diritto degli imputati ad essere ritenuti innocenti - possibile che nessuno tra i loro leader capitolini abbia oggi il coraggio di dire che una città è stata messa alla berlina da un pessimo lavoro reso dalle istituzioni ai cittadini con la costruzione in vitro mediatico del teorema di Mafia Capitale? Ma certo che è possibile, persino inevitabile: senza questa enorme ingiustizia capitale, senza i sensazionalismi giudiziari dietro i quali si dipanavano le avvincenti conversazioni di Palamara e di altissimi membri delle correnti del CSM, senza un qualunquismo giustizialista distillato in odio puro e in pregiudizio attraverso la rete, come mai sarebbe potuto accadere il miracolo di una banda di scappati di casa trasformata in classe di governo nazionale? Ma vi rendete conto - mi si perdoni il rischio di blasfemia - della sobria semplicità del miracolo delle nozze di Cana, dove l’acqua fu trasformata in vino, rispetto allo straordinario e perverso prodigio che ha reso possibile la metamorfosi del disk jockey Fofò in Ministro di Grazia e Giustizia?

Il riscatto della nostra città passa anche dalla richiesta esplicita e coraggiosa di una Procura migliore, a volte sospetta di strabismo - quando si sa che la giustizia dovrebbe essere cieca e non strabica -, più incisiva, più veloce, meno politicizzata, meno incline al coupe de theatre. Ci sono risorse professionali straordinarie nei nostri Palazzi di giustizia, uomini e donne da cui prendere esempio per il modo in cui svolgono il loro lavoro, disinteressati alle diatribe delle correnti e ad ogni camarilla politica. Il che dimostra che una Giustizia migliore sarebbe forse a portata di mano. E’ quindi possibile e persino probabile che i nuovi vertici della Procura di Roma possano già garantire, anche grazie alla sentenza della Cassazione su Mafia Capitale, un nuovo stile più sobrio e concreto, un approccio meno comunicativo e roboante, dove non capiti quotidianamente che gli atti delle inchieste giungano in possesso delle cronache giudiziarie prima ancora che le leggano gli avvocati degli imputati. Il che forse sta già accadendo: penso all’inchiesta condotta in punta di piedi sul pasticcio delle mascherine della regione Lazio. Per la prima volta, dopo un paio di decenni, il lavoro degli inquirenti si svolge con discrezione, senza fughe di notizie sull’attività investigativa, senza consentire alla stampa processi sommari, lesinando con grande prudenza persino gli avvisi di garanzia, di norma appioppati come multe per divieto di sosta intorno allo stadio la domenica.

Per il mascherinagate abbiamo addirittura registrato una dichiarazione stampa formale, preliminare e pregiudiziale, che ha definito la Regione come parte lesa. In silenzio la Guardia di Finanza scrive le sue informative, in silenzio i magistrati fanno le loro rogatorie, in silenzio la Procura di Taranto collabora con quella di Roma: nonostante il pruriginoso tema scandalistico di una truffa in piena pandemia e malgrado quanto già emerso in sede di confronto politico sui molteplici arbitri commessi dalla Regione, la ricerca della verità giudiziaria sembra svolgersi con una sobrietà che ha pochissimi precedenti in inchieste in cui, al pari di questa, fossero per certo spariti milioni e milioni di euro. Atmosfere investigative che paiono liberamente ispirate dagli Uffici di Giustizia Federale elvetici: così a Piazzale Clodio si respira un’aria che sembra provenire dal remoto Cantone di Zug. Essendo un inguaribile ottimista, voglio quindi credere che non sia un episodio isolato o peggio, ma il segnale di una svolta, di un atteso quanto auspicato cambio di stile.

Per il resto, la frase “i tempi sono maturi per una riforma della giustizia”si sta trasformando in un involontario stereotipo umoristico, visto che da trent’anni viene ripetuta con aria grave e pensosa dai soggetti più improbabili, da ultimo persino dall’ineffabile Palamara in un paio di trasmissioni televisive. Per il momento meglio allora confidare in una autoriforma di stile e contenuti da parte dei Procuratori in carica e attendere giorni migliori.

Roma, ferita e umiliata gratuitamente da questa vicenda, dileggiata dai suoi detrattori, al di là ma anche al di qua delle Alpi, saprà mettersi presto questa vicenda alle spalle: 2800 anni di civiltà, grandezza, storia, sacralità, arte e diritto, accompagnati da abissi di corruzione, violenza, sensualità, arbitrio e tirannide, non sanno che farsene dei reati di quattro mezze tacche specializzate nell’accaparramento illegale di appalti per il taglio del verde, per la pulizia delle spiagge e per la gestione dei campi rom. Nel bene, ma anche nel male, Roma nella sua aspirazione all’eternità può infatti prendere nota solo dei segni dai significati epocali, smisurati e quindi tendenti all’eccesso. Il piccolo lustro di Mafia Capitale è stato invece per Roma poco più di un momentaneo fastidio. Non così per i suoi finitimi cittadini e per la sua classe dirigente del terzo millennio, costretti a vedere la Capitale vilipesa dalla stampa, dai media, dal cinema, dagli opinionisti e ignorata dal Governo e dalla sua programmazione economica.

E’ tempo allora di rialzarsi, di risvegliare le coscienze stordite da un prolungato quanto ingiustificato fracasso mediatico autolesionista, per restituire a questa città il ruolo che le spetta nella nostra povera Patria e nel mondo.