Roma

Mafia Capitale: "Se c'è mafia per ora è mediatica", Ettore Randazzo, l'avvocato diventa accusatore

di Valentina Renzopaoli

Garantire il diritto costituzionale alla difesa sopra ogni cosa, tutelare la presunzione di non colpevolezza di ogni imputato senza distinzione, presunti mafiosi e terroristi compresi. Mentre nell'aula bunker del carcere di Rebibbia si consumano le prime battute del maxi processo Mafia Capitale, l'avvocato penalista Ettore Randazzo, esperto di deontologia forense sceglie Affaritaliani.it per riflettere sui rischi della sovraesposizione mediatica dei processi e sul rapporto tra il ruolo dell'avvocato e la verità processuale. Presidente dell'Unione delle Camere Penali dal 2002 al 2006, Randazzo è l'autore del testo “L'avvocato e la verità” che, a distanza di dodici anni dalla prima pubblicazione, esce in libreria con una nuova edizione, edita da Sellerio.
Professor Randazzo, è giustificato il clamore mediatico che sta accompagnando i primi passi del processo Mafia Capitale?
"A dire il vero sono piuttosto perplesso: ogni giorno in Italia si celebrano processi ben più gravi, dove è presente la mafia vera".
Sta dicendo che tra le carte di Mafia Capitale non intravede la “mafia vera”?
"Non posso e non voglio giudicare un processo che non conosco, ma di certo so che nel sud Italia il problema delle mafia esiste per davvero. Per formazione e cultura sono convinto della presunzione di innocenza e di non colpevolezza fino all'emissione di una sentenza, e in questo caso, i “signori” di Mafia Capitale sono stati già trattati in modo plateale come presunti colpevoli. Per di più senza la possibilità di presenziare in aula".
Proprio la decisione di far partecipare alcuni imputati al dibattimento tramite videoconferenza ha scatenato la protesta dei difensori e anche della Camera Penale di Roma: è una battaglia giusta secondo lei?
"Non solo è giusta, è sacrosanta. Pensi solo per un attimo di essere indagata o accusata ingiustamente per un fatto che non ha commesso: le sembrerebbe giusto doversi difendere senza avere accanto il suo legale a cui consigliare una domanda o un intervento nel contraddittorio? Privare un imputato della presenza del suo difensore è un'ingiustizia profonda di cui prima o poi ci dovremmo vergognare".
Quindi lei sta criticando persino la norma che vieta agli imputati detenuti in regime di 41 bis di partecipare in aula al dibattimento?
"Nessuno può essere trattato da mafioso se deve essere processato proprio per stabilire se lo è: si tratta di un diritto costituzionale. Lei pensi che la nostra civiltà impone che persino i terroristi dell'Isis, ritenuti gli autori dei terribili e disumani attentati di Parigi, abbiano il diritto di essere processati e non giustiziati senza un processo. E questo diritto deve essere difeso proprio perché siamo un Paese civile. Diritti spesso occultati con il sostegno mediatico".
Lei non sembra stimare troppo la stampa...
"Guardi io sono pubblicista e amo molto il vostro mestiere. Quando parlo dei rischi del processo mediatico mi riferisco a patologie del sistema: così come tra noi avvocati ci sono delle “storture”, così anche nella categoria dei giornalisti c'è chi dipinge gli imputati come fossero già colpevoli. Un errore madornale che altera il convincimento dell'opinione pubblica. Eppure statisticamente nei processi italiani sono più gli assolti che i condannati".
A dodici anni dalla prima uscita, è pronta la nuova edizione del suo volume “L'avvocato e la verità”, una testo che riflette su come è possibile conciliare le esigenze della verità giudiziaria con i diritti di garanzia degli imputati. Cosa è cambiato da allora e perché ha deciso di rimettere mano al suo lavoro?
"Il 16 dicembre del 2014 è entrato in vigore il nuovo Codice Deontologico forense e, nello specifico, l'articolo 14 che era la voce delle istituzioni forensi, ora espresso con l'articolo 50, dedicato al rapporto tra avvocato e verità. Argomento che mi è molto caro e sul quale ho ritenuto di dover aggiungere qualche riflessione".
In un passo del suo libro lei scrive: “Sono avvocato e devo svolgere gli interessi del mio assistito al meglio. Non sono un pm, non ricerco la verità. Io garantisco la legalità del processo assicurando una difesa piena”. E' giusto sostenere quindi che quello tra avvocato e verità è un rapporto complesso e spesso conflittuale?
"E' così e spesso questo aspetto non è affatto accettato nella sua concretezza dagli stessi avvocati. E' il piemme che deve ricercare assolutamente la verità, mentre il giudice non deve ricercare la verità ad ogni costo bensì verificare se il pm ha raccolto sufficienti prove per stabilire la colpevolezza dell'imputato, tenendo conto che il nostro è un sistema in cui vige la presunzione di non colpevolezza. Il difensore, invece, ossia l'avvocato, deve garantire i diritti dell'imputato, non difendere le sua azioni ma il giusto processo. E di giusto processo si può parlare solo se il diritto di difendersi abbia avuto effettiva esplicazione".