Roma
Morto Enrico Nicoletti: nella tomba i segreti della Banda della Magliana
Il cassiere di Renatino De Pedis si spegne ad 84 anni: “il Presidente” era l'unico a sapere il reale ammontare del patrimonio accumulato dal sodalizio criminale
di Patrizio J. Macci
Enrico Nicoletti, classe 1936, è stato il cassiere della banda della Magliana, come un faraone porta nella tomba i suoi beni cioè il reale ammontare del patrimonio accumulato dal sodalizio criminale. Era l'unica persona, tra i malavitosi degli anni Settanta, che a Roma poteva dare ordini a Renatino De Pedis all'auge della sua fama, quando si faceva chiamare “il Presidente”.
Nicoletti inizia la sua attività negli anni Sessanta, investendo nei prestiti a strozzo i soldi dei piccoli criminali di Centocelle, il suo quartiere acquisito. Non chiede garanzie, Nicoletti: "Con me si arriva sempre a dama..." ripete spesso ai suoi collaboratori. I primi furono i Testaccini ad affidare a Nicoletti i soldi della banda quando si accorsero della sua straordinaria abilità: nel farli viaggiare, moltiplicare e soprattutto lavare.
Condannato per estorsione, pluri-inquisito, più volte detenuto, finiva in carcere, mediamente, una volta l'anno ma sempre per periodi brevi visti i reati che gli venivano contestati, per lo più di natura finanziaria.
Enrico De Pedis, al “banchiere” Sor Enrico, lasciava una cinquantina di milioni alla volta. Glieli portava in contanti, dentro buste di carta, presso uno studio professionale a Prati, Lungotevere dei Mellini. Da quel che dirà ai magistrati il titolare dello studio, un notaio finito anche lui strozzato dall'usura e per questo costretto a lasciare a Nicoletti la sua scrivania, in quell'appartamento a Prati Nicoletti si incontrava non soltanto con Enrico De Pedis ma anche con un sedicente “mago degli assegni”.
Quando la Finanza fece i conti sulla reale consistenza dei suoi beni ne uscì fuori una cifra a dieci zeri: centinaia di miliardi di lire tra appezzamenti di terreno, alberghi, palestre, ville, appartamenti nel Centro della Capitale, fabbricati vari, imprese commerciali, autosaloni, opere d'arte, barche e 24 auto di lusso tra cui tre Ferrari, una Lamborghini Countach, tre Rolls Royce, due Porsche e dodici Mercedes. Nulla era intestato a suo nome.
Enrico Nicoletti, Sor Enrico, l'imprenditore dei rotoli di soldi tenuti in tasca con l'elastico sempre sul filo del rasoio al quale i membri della Banda davano i loro soldi da riciclare somigliava, nell'ultimo tratto della sua esistenza, ad Aldo Fabrizi quando interpreta l'imprenditore edile Romolo Catenacci nel film C'eravamo tanto amati. Sposato, quattro figli, quasi inesistente per il fisco fino al 1980, lui e la moglie riescono in quello che appare essere un miracolo: senza referenze ottengono dalle banche prestiti per centinaia di milioni e anche un finanziamento di un miliardo di lire con assegni provenienti dallo IOR, la banca vaticana. Ogni tanto si faceva vedere anche a Testaccio: insieme a quelli della Magliana e pure in compagnia di Vittorio Casamonica, suo addetto personale al 'recupero crediti' e braccio operativo, capostipite di un clan che a Roma diventerà potentissimo, specializzato nel racket e nell'usura.
È spirato in clinica ma è come se fosse morto nel suo letto. Il suo nome incute ancora così tanto “rispetto”, e forse tali sono i segreti che conservava, che andando a spulciare su Wikipedia la sua voce biografica manca all’appello. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.