Omicidio Varani, festini con droga e sesso gay. La morte di Luca va in teatro
E' destinato a far scoppiare una bufera lo spettacolo “L'Effetto che fa” in scena dal 31 ottobre
“Vedere l'effetto che fa” è la risposta che Manuel Foffo e Marco Prato hanno dato agli inquirenti quando gli è stato chiesto come mai avessero torturato e ucciso Luca Varani.
“L’Effetto Che Fa” è anche il titolo dello spettacolo teatrale scritto e diretto dal giovane autore Giovanni Franci, coetaneo dei protagonisti dell’efferato fatto di cronaca, che ricostruisce in parte gli avvenimenti di quel tragico Marzo 2016, con un focus sui sentimenti che questo fatto ha aperto nella sua e nelle nostre coscienze.
La pièce andrà in scena dal 31 ottobre all’8 novembre 2017 nel nuovo spazio Off Off Theatre Festival a Roma (direttore artistico Silvano Spada) e vedrà in scena tre attori under 35, Valerio Di Benedetto (Manuel Foffo), Riccardo Pieretti (Luca Varani) e Fabio Vasco (Marco Prato), alle prese con un testo che è destinato a far discutere ancor prima di essere rappresentato, suscitando un acceso dibattito nella comunità gay e non solo.
Il fatto
Manuel, un ragazzo di ventinove anni, studente fuoricorso di giurisprudenza, eterosessuale, è in macchina con suo padre. Si stanno recando al funerale di un parente nelle Marche.
A circa duecento chilometri di distanza da Roma, il padre non può fare a meno di notare che quella mattina, suo figlio, sia particolarmente taciturno, così gli rivolge qualche domanda a riguardo.
Manuel, con estrema calma, risponde di essere in quello stato perché ha fatto uso di cocaina e di avere compiuto un omicidio insieme ad un suo amico, aggiungendo che il cadavere della vittima è ancora in casa sua. Il padre inverte la guida in direzione di Roma, mettendosi immediatamente in contatto con l’avvocato di famiglia.
Nell’appartamento di Manuel, al Collatino (periferia est di Roma), i carabinieri trovano il corpo massacrato di un ragazzo di 23 anni, si chiamava Luca, veniva da La Storta (periferia nord di Roma). Il cadavere di Luca è disteso sul letto, avvolto in un piumone.
Manuel ammette subito la propria responsabilità in quel crimine ed indica come suo complice Marco, un ragazzo di trent’anni, laureato con master all’estero, organizzatore di feste, di aperitivi, grande fan di Dalida, omosessuale.
Marco viene trovato in una camera d’albergo dove ha messo maldestramente in scena un tentativo di suicidio sulla falsariga di quello di Dalida, con “ciao amore ciao” cantata da Dalida a tutto volume come colonna sonora.
Manuel e Marco dichiarano di aver attirato la vittima in quell’appartamento perché avevano intenzione di fare del male a qualcuno e di aver torturato Luca fino alla morte, sopraggiunta soltanto dopo due ore di sevizie indicibili, semplicemente perché avevano voglia di vedere l’effetto che fa.
Gli scenari che emergeranno da questo momento in poi, sono tra i più allucinanti e disturbanti che la cronaca ricordi.
L'autore Giovanni Franci racconta il suo percorso
Prima di iniziare a lavorare su questo testo, mi sono fatto alcune domande, mi sono chiesto: cosa ho in comune con Manuel e Marco, ovvero, con i due assassini?
Manuel e Marco sono nati e cresciuti a Roma, come me. Fanno parte della mia stessa generazione (trentenni con sensi di vuoto e vuoti di senso vari ed eventuali). Sono di buona famiglia. Hanno frequentato buone scuole. Hanno ricevuto una buona educazione e una buona istruzione. Sono cresciuti in un ambiente borghese (termine ormai desueto in tutto il vecchio continente tranne che a Roma), più o meno cattolico, democratico, perbene.
Insomma, ho decisamente molte cose in comune con loro, così mi sono posto un’altra domanda:
Come è stato possibile che tanta buona famiglia, tanta buona educazione, tanta buona istruzione abbiano portato a un risultato tanto abominevole, disastroso, agghiacciante?
Domanda tanto retorica, quanto tremendamente chiara, ma non per questo ovvia, è la risposta.
Ancora un’altra domanda. Mi sono chiesto: cosa ho provato quando iniziarono ad uscire le prime notizie su questo massacro avvenuto a Roma, di prima mattina, in un appartamento al decimo piano del Collatino? Si parlava di un festino durato tre giorni culminato con l’omicidio di un povero ragazzo chiamato in quell’appartamento da due ragazzi allo scopo di prostituirsi in cambio di soldi e roba. Non ho dovuto fare nessuno sforzo per ricordare il senso di profondo malessere che ho provato in quei momenti. Quello stesso malessere mi ha accompagnato durante tutta la stesura del testo e in qualche modo lo avverto tuttora. Lo sento ancora adesso, forte e chiaro. Da quelle prime notizie, la storia di questo omicidio ha iniziato a riempirsi di particolari sempre più raccapriccianti, di rivelazioni sempre più incredibili e spaventose, trasformandosi in uno sconvolgente, desolante e, almeno per me inedito, viaggio nei meandri più bui dell’animo umano. Una vera e propria discesa negli inferi. Il malessere che ho provato e provo tuttora mi ha quindi ferito indelebilmente, forse proprio perché i protagonisti di questa storia sono così vicini a me, anagraficamente, socialmente e culturalmente parlando.
Ciò che più mi ha disorientato, credo non soltanto me, è la motivazione del delitto, cioè l’assenza di motivazione. La vittima viene uccisa allo scopo di vedere che effetto fa uccidere un essere umano. Uno a caso.
A questo proposito riporto un estratto dell’articolo di Nicola Lagioia, apparso il 1 aprile 2016 su Il Venerdì di Repubblica, a cui sono molto grato per avermi aiutato a trovare una direzione per affrontare questa drammatica storia: qualcuno, dopo l'omicidio di Luca, ha invocato la pena di morte. Il problema di Manuel e Marco mi sembra però quello di due individui mai nati per davvero, identità rimaste intrappolate a uno stato larvale. È probabile che Manuel Foffo non avrebbe ucciso se non avesse incontrato Marco Prato e viceversa. L'incontro di due impalcature così fragili è stato letale: una è precipitata addosso all'altra, entrambe addosso al povero Luca.
Quando un cronista che segue il caso mi chiede in un raro momento di pausa a quale romanzo mi fa pensare il rapporto tra i due assassini, rispondo istintivamente Frankenstein 2016. Dove Prato è lo scienziato cialtrone che gioca con il fuoco, e Manuel un vaso di Pandora che una volta scoperchiato genera una violenza da cui anche il primo si lascia contagiare. In tutto questo, le droghe svolgono un ruolo molto importante. Poi ci sono i genitori. Le colpe dei figli non ricadano sui padri, ma con padri diversi chissà se saremmo a questo punto.
Ascoltando Ledo Prato e Valter Foffo, i genitori di Marco e Manuel, mi sono fatto l'idea di una catena di mancanze. Due padri che a propria insaputa schiacciano i figli (venendo meno, senza nemmeno accorgersene, al dovere di farne degli adulti) e due figli che si sottraggono vigliaccamente al dovere di non lasciarsi schiacciare. Quando Valter dice «a noi Foffo non ci piacciono i gay, ci piacciono le donne vere. Mio figlio non è da meno», non si rende conto di sognare la castrazione simbolica di Manuel, il suo totale annullamento, non perché suo figlio sia o meno gay, ma perché nelle parole del padre non è un individuo autonomo, è confuso in quel «noi Foffo» persino per un aspetto così intimo come l'orientamento sessuale.
Quando, una sera, raggiunto fuori dal suo ristorante, Valter dirà che gli dispiace tantissimo per i genitori della vittima anche perché Luca, essendo stato adottato, rappresentava per i Varani «il loro tesoretto», esprimerà, con identica mancanza di consapevolezza, l'idea che i figli siano tutt'uno col patrimonio di famiglia.
Ledo Prato, a propria volta, quando esce allo scoperto scrivendo sul suo blog un post in cui parla solo di sé, autorappresentandosi come un esempio di virtù («In questi lunghi anni ho cercato di trasmettere speranza, coraggio, fiducia, di costruire bellezza, di preservare i valori fondamentali [...] Quelli che vorranno ancora seguirmi sappiano che non riuscirò ad essere presente su queste pagine con continuità ma che non rinuncerò a niente delle idee e dei valori in cui credo») nominando suo figlio solo attraverso discorsi altrui, e non soffermandosi mai sulla vittima, non si accorge di essere lo speculare di Valter Foffo: vivendo il figlio come appendice di se stesso, recide linguisticamente il legame per timore che la macchia su Marco risalga fino a lui. Il tutto nell'assordante silenzio delle madri, che in questa vicenda non hanno mai ritenuto di dovere (o di potere?) prendere la parola.
L'identità di ognuno di noi non è compiuta. Ma in Manuel e Marco questo deficit supera il livello di guardia. Tutti ci illudiamo di essere migliori di come siamo realmente. Ma nei padri di Manuel e Marco la sopravvalutazione sfiora il parossismo, poiché dalla propria griglia emotiva e intellettuale questi uomini sembrano aver sradicato ciò che consente di trattare gli affetti col rispetto dovuto all'altro da sé, facendo scendere se stessi dal pianeta di chi si reputa incolpevole a priori. A contrario, qualcosa di Marco e Manuel, e dei loro genitori, risale a noi. Anche per questo, provare a entrare nelle loro teste è un dovere etico.
Senza tutta quella droga, Manuel e Marco non avrebbero ucciso Luca. Ma se la droga bastasse, soltanto a Roma avremmo centinaia di omicidi al giorno. La coca e il crystal meth, usati in quel modo, possono rendere molto aggressivi, ma prima ancora servono a reggere l'impalcatura identitaria se non sei riuscito a costruirtene una in grado di stare in piedi. Se hai lasciato che il tuo io rimanesse schiacciato (dal mondo, dai genitori, dalla vita) sarai un eterno affamato che pensa solo a estinguere il bisogno.
Manuel e Marco non sono in grado di vedere altro che se stessi. Io io io... Parlano di sé, del proprio dolore, delle proprie frustrazioni. Quando riescono a provare compassione, ancora una volta, è soprattutto per la propria persona. Io io io... Come se l'ossessiva menzione di un pronome personale compensasse la mostruosa insufficienza del suo corrispettivo reale. Se in fondo ti senti poco più di uno zero, ridurre l'altro a niente (ad esempio uccidendolo) può essere il mostro che porti dentro senza saperlo.
Infine, Luca Varani. Era un ragazzo. Ha avuto la sfortuna di rispondere a un sms. Quando Marco e Manuel l'hanno visto entrare nell'appartamento, «è scattato un clic», hanno capito che sarebbe stato lui la vittima. Non perché fosse un debole, ma perché la debolezza drogata e violenta dei carnefici poteva averla vinta solo sulla fragilità, che è cosa ben diversa. Nel racconto di amici, conoscenti, ex professori, Luca era vispo, allegro, ingenuo, intelligente, teneramente logorroico, e aveva un grande bisogno di essere accettato dagli altri. In due parole: un mite. Aveva lasciato la scuola serale l'anno scorso senza diplomarsi, ma forse avrebbe recuperato in seguito. Anche lui cercava un posto nel mondo. Alla fidanzata, con cui era stato fino al giorno anteriore alla sua morte, hanno dovuto spiegare prima che era morto, poi che l'avevano ammazzato in quel modo, e infine che secondo gli assassini Luca era lì per prostituirsi.
Gli amici di Manuel ritengono impossibile che Luca si vendesse. Al massimo, affermano, era lì perché credeva di arrotondare spacciando un po' di coca. Qualche conoscente, per ribadire l'eterosessualità della vittima, mostra post non proprio teneri verso gli omosessuali che Luca aveva messo su Facebook. Gli si potrebbe rispondere che l'omofobia dei prostituti occasionali è un vecchio classico.
Ma il punto non è questo. Il punto – mi sentirei di dire ai giovani amici di Luca – è amare Luca qualunque cosa sia successo. Amatelo se per ingenuità ha commesso un errore, se era andato dai suoi assassini per rivendersi due grammi di coca. Se invece verrà fuori che le cose sono andate come oggi credete sia impossibile, amatelo lo stesso. Accettate che oltre una certa soglia siamo sconosciuti gli uni agli altri, che chi ci è accanto può avere zone d'ombra, e non per questo possiamo smetterle di amarlo. Accettate di essere insufficienti voi, di non potere o non sapere leggere ogni cosa della persona a cui volete bene, dal momento che, essendo però riusciti a vedere in lui o lei ciò che è essenziale, sarete forti di un amore che non verrà tradito. Solo restituendo con coraggio all'altro un profilo quanto possibile compiuto e fedele, saprete meglio chi siete voi stessi. Allora sentirete la bellezza di essere diventati adulti. E se lo siete già, ne uscirete rafforzati. Saprete benissimo dove andare, sentirete forte e chiara la direzione, pur nel ventre di una città, Roma, che per adesso ne è schifosamente priva.