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Roma
"Pagare solo il 15% di tasse è possibile". Privatizzare, la ricetta Salva Italia

di Patrizio J. Macci

Salvare il Paese dalla crisi sistemica in cui è piombato e rilanciarlo con una parolina magica: privatizzare.
È la ricetta di Massimo Blasoni, imprenditore di prima generazione fondatore e guida di uno dei principali gruppi italiani nel settore della gestione e costruzione di RSA per anziani.
La sua esperienza  l'ha riversata nel volume "Privatizziamo! Ridurre lo stato liberare l'Italia" Rubbettino Editore. Il senso del libro si evince immediatamente dalla sgargiante copertina: liberare i cittadini dalle catene di una mastodontica struttura nata per fare tutto, ma che oramai riesce a fare ben poco.
La ricetta di Blasoni è così sintetizzabile: rendere privato pressoché tutto quello che oggi lo Stato gestisce con intervento diretto nella produzione di beni e servizi e molte delle strutture che concorrono alla sua attività amministrativa, al fine di migliorare la qualità dei servizi e incrementare la libertà dei cittadini. Compete allo Stato legiferare, regolamentare e vigilare.
Devono restano pubblici esercito, giustizia e polizia, in quanto garanti di sicurezza e legalità per il cittadino. L’impiego pubblico si limita agli organici indispensabili a espletare queste funzioni. Tutto il resto è privato. Con il gettito tributario lo Stato acquista per i cittadini alcuni servizi – direttamente o attraverso l’assegnazione di vaucher – e prestazioni di interesse collettivo sul libero mercato. Altri servizi perdono la loro natura pubblica e vengono acquistati dai cittadini da imprese private. La capacità di spesa dello Stato è minore rispetto a quella attuale, conseguentemente è possibile ridurre le tasse. La pressione fiscale non superava il 15% del pil durante il ventennio fascista. Aveva raggiunto il 18% nel dopoguerra ed era di poco cresciuta sino alla riforma tributaria del 1972. In seguito è schizzata su, giungendo, nel giro di pochi anni, all’attuale 50% in termini reali. Un dato spropositato che meglio di ogni altro evidenzia quanto la spesa pubblica sia cresciuta e sia auspicabile un trasferimento di risorse alle famiglie e alle imprese.
Esse di norma spendono meglio e utilmente.
Anche l’impostazione liberale pone dei limiti alla pretesa dell’esercizio assoluto della propria libertà. Posto che alcuni valori non possono essere negoziati e giusnaturalisticamente precedono lo Stato, è possibile però sottoscrivere un patto sociale per consentire la coesistenza tra individui: non sarebbe concettualmente possibile se ognuno godesse di illimitata libertà. Dunque, seppur non si vuole che sia pervasivo, deleghiamo una parte della nostra libertà e delle nostre risorse allo Stato. Sulla scorta di questo ragionamento si comprende che l’istruzione scolastica, le infrastrutture o le politiche sociali rappresentano un costo che non può essere singolarmente sopportato dal cittadino, ma che viene ripartito su tutti i beneficiari sulla base del principio di solidarietà. Di più che questo concorso avviene in proporzione al proprio reddito. Per analoghi motivi è chiaro che servono poteri pubblici che stabiliscano le regole di convivenza: il piano regolatore serve e deve essere predisposto dai comuni nell’interesse pubblico, come pure è necessario che un’auorità verifichi il rispetto delle normative relative alla sicurezza dei luoghi di lavoro o antincendio nell’interesse di tutti.
Tuttavia, se la funzione amministrativa compete allo Stato, cosa vieta che sia sostanzialmente privatizzata la concreta operatività degli uffici comunali, regionali o dei Ministeri e di svariati altri enti? Cosa impedirebbe che pressoché ogni servizio pubblico fosse prodotto privatamente, fuori da logiche politiche? E che fossero private le imprese oggi pubbliche? Qualcuno rimpiange l’Iri o la Cassa per il Mezzogiorno? Non hanno senso le funzioni esercitate da regioni e comuni nella raccolta dei rifiuti o nella produzione e distribuzione di acqua ed energia. Il costo dell’intermediazione politica, fatta di consigli d’amministrazione, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti di fornitura, genera costi impropri che si trasformano in ulteriori tasse per i cittadini. E peggiorano i servizi.

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