Roma
Ricordi sparsi d'infanzia: “Sotto le Stelle”, sesto racconto di Adriana Soares
Su Affaritaliani.it il sesto estratto da “La piega del Tempo” di Adriana Soares
“Sotto le Stelle” è il sesto racconto tratto da “La piega del tempo” di Adriana Soares, artista eclettica che si esprime nelle diverse arti della fotografia, della pittura, della poesia e della scrittura.
È in pubblicazione nel prossimo autunno l’ennesima fatica letteraria dell’autrice, giunta alla sua nona pubblicazione, con il suo primo romanzo intitolato: ”Presenze invisibili a Quixada”. Lo scritto è un thriller psicologico laddove il crimine e la sua espiazione possono rappresentare un nuovo inizio.
"La piega del tempo" è una raccolta di dieci racconti intervallati da alcune delle sue poesie in cui si specchiano le nostre miserie, costituendo per questo un chiaro monito a tutti noi.
Sotto le Stelle
Non posso cambiare neanche un frammento del mio passato, non è una pellicola che si può riavvolgere e tagliare a piacimento, non posso quindi, cancellare o guarire le ferite inflitte durante la mia infanzia e dopo. Potrei invece, cercare di riparare i guasti, rattoppare le fratture, cercando di trovare la mia integrità fortificandomi. Solo avendo il coraggio di affrontare quei fantasmi da vicino, memorizzati, segnati sul mio corpo assumendone coscienza, potrei trovare una salvezza. Bisogna avere coraggio di affrontarli, faccia a faccia, per riuscire a liberarsi da quella prigione invisibile. Non si nasce liberi, lo si diventa, lo si conquista. È un lavoro che si fa su noi stessi, solo da noi e che dura tutta la vita. Noi siamo la nostra casa. Sono andata qualche volta oltre quella casa, oltre la foresta che la delimitava, salendo sulle montagne verdeggianti. Ho potuto vedere il mondo dall’alto. L’ho visto tuffarsi dentro alle acque dell’oceano, immergersi dentro quelle acque scure come il catrame ed essere travolta da una luce abbagliante, prodotta dall’impatto del mondo con l’oceano e l’aria che si riempiva d’eternità.
Di silenzio.
Viaggiare non significa solo attraversare case, villaggi, città, paesi, continenti. Non vuol dire neanche scrostare la loro anima o il loro cuore.
è cercare l’infanzia, cercare di risalire alle origini, ma non si arriverà mai, perché ogni passo che si farà, provocherà un cambiamento e non si riuscirà a colmare quel vuoto.
Così, finirai con l’abbandonare l’infanzia, rompere con i natali, con le proprie origini, lasciando una grande voragine dentro. Solo quando si avrà il coraggio di scegliere, anche tagliando, inizieranno ad accadere cose importanti. Solo con una scossa inizia la svolta. Non sempre originerà cose positive, ma almeno ci si potrà sentire protagonisti della propria vita. Prima non mi conoscevo, poi mi sono palesata, ancora oggi si stanno rivelando, di tanto in tanto, luoghi inaspettati del mio carattere e di me che ignoravo.
Ogni cosa ha il suo tempo. Il mio, non era un semplice viaggio, era il primo gesto di rivolta personale, come se si fosse insinuato in me qualcosa di diverso, di irrimediabile, di irreparabile. Non ero più la bambina esile, insicura e taciturna. Così, ho scosso l’albero della mia adolescenza dormiente e semplice. Ho raccolto ciò che avevo di più prezioso: me ed i miei sogni. Ho riempito valigie e tasche con frammenti del mio abisso e sono partita. Dentro di me vibrava il desiderio di cambiamento, di andare avanti, portando con me ogni attimo del mio passato. Una sorta di zavorra auto prodotta. Non si può pensare al futuro senza costruirsi i propri pilastri connessi alle fondamenta del nostro passato.
A 11 anni ero matura, di una maturità insolita, profonda, graffiante, spigolosa, quasi abissale in un certo senso poetica. Abbiamo bisogno di essere rassicurati e ripensare alle cose che ci piacevano fare e che in un certo senso ci fanno tornare a casa. A volte basterebbe un semplice ricordo per addolcire quel senso metallico della realtà.
Le mie giornate carioca erano segnate da un ritmo scandito, monotono, prefissato. Per questo motivo aspettavo con un certo entusiasmo il momento di andare a trovare con mia sorella e mia madre, dei vicini.
Erano i più anziani del quartiere, li consideravamo un po’ come dei nonni: “nonni di tutto il vicinato”, un po’ per età, un po’ per la loro saggezza. Ripensando alle cose che mi piaceva fare e che ricordo con tenerezza infantile, era andare a trovarli di sera. Mi manca quel senso di sicurezza, di amicizia, di mutuo aiuto comune nel mio paese. Preferivo andarli a trovare, piuttosto che guardare la tv. Mi affrettavo di cenare per andare da loro. Quelle visite davano significato alle mie giornate. Vivevo in campagna, nel quartiere di Niteroi, andavo a scuola alle 7:30 del mattino, tornavo per le 12:00 e mi mettevo a fare i compiti e le faccende di casa, questa si affacciava su di una strada di terra battuta dal colore rosso, delimitata da alberi da frutto ed una vegetazione lussureggiante e vivace.
La strada sopravviveva all’avanzare della natura, una lotta perenne per la sopravvivenza di entrambe. Una avanzava e l’alta si ritraeva o soccombeva e viceversa.
S’inerpicava con slancio e coraggio verso il cielo, da casa mia la vedevo sulla linea dell’orizzonte, oltre il quale non c’era null’altro.
Era come un serpente che si contorce con un certo vigore. È su quella strada che ho imparato ad andare in bicicletta, quante cadute, quante risate, coperta dalla polvere rossa. Mi ricordo che nei periodi di siccità quella polvere, in un certo senso gommosa, si attaccava sulla pelle, sui vestiti e sui capelli, mentre, durante la stagione delle piogge, ci sentivamo un po’ dei vasi di coccio, paralizzati.
Non si poteva uscire di casa per le acque torrenziali che scorrevano sulla strada senza argine, sotto quel cielo immenso e poco rassicurante. I temporali erano violentissimi e per via di questi che staccavamo tutti gli elettrodomestici dalle prese di corrente. Restavo dentro l’armadio fino a quando l’ultima goccia e l’ultimo tuono non avessero emanato l’ultimo urlo minaccioso. La vita di campagna era semplice, priva di slanci arditi e appassionati.
Cercavo di rifugiarmi in una realtà parallela, fuori dal tempo. Nel mio mondo, i pesci potevano vivere sugli alberi e le creature terrestri si trovavano a loro agio sott’acqua, una realtà non è mai lontana dal sogno. Quella strada per noi bambini era cosi suddivisa: un lato in cui potevo muovermi e, l’altro lato, dove era proibito oltrepassare.
Il limite era rappresentato dalla casa imponente, bianca, ariosa, circondata da portici coperti da rampicanti fioriti multicolore e hibiscus rossi e gialli, da alberi di frangipani che quando fiorivano era una festa; avevano un colore bianco candido, i fiori erano carnosi di cera, il loro profumo, inebriante, le foglie erano di un verde intenso e deciso.
Il retro ospitava alberi da frutto, quali la jaca, un frutto immenso, verde all’esterno gremito di spine morbide, la sua polpa era qualcosa d’irreale, dal giallo Napoli, al giallo oro, profumatissima ed i chicchi erano grossi e pieni. Me li infilavo in bocca avidamente facendo scoppiare il grande chicco, e mentre chiudevo gli occhi, sentivo un piacere pungente che mi avvolgeva. Conservavo il grosso seme custodito al suo interno, per bollirlo e mangiarlo con un pizzico di sale, il sapore sembrava la nostra castagna. Gli alberi di mango e avocado gigante avevano dei tronchi robusti, capaci di sorreggere e sopportare ingente peso e tormente.
Sorreggevano con dolcezza e garbo, altalene e ascoltavano le nostre risate e i racconti senza senso e pieni di perché. Rose variopinte grandi a piccine, rampicanti o in forma d’arbusto, profumate all’inverosimile completavano quel quadro. Ancora oggi cerco quei profumi per poter tornare a casa. Un laghetto coperto di ninfee rosa antico che galleggiavano in silenzio, mentre un mondo pieno di vita prendeva respiro sotto di loro e al loro riparo: da carpe giganti, rospi, rane.
Mi sedevo lì accanto e aspettavo immobile le farfalle, libellule e colibrì. Un mondo meraviglioso, è così che li porto dentro al mio cuore, nella mia stanza segreta. Puoi immaginare quale attrattiva esercitava su di noi bambini, su di me. I proprietari erano una coppia di mezz’età. Dona Maria era una signora energica, vivace, allegra. I suoi occhi grandi e neri si tuffavano senza permesso dentro il mio lato più profondo, mi sentivo disorientata e nuda, come se mi leggesse dentro la testa o peggio dentro la mia coscienza.
Una creola dalla pelle color cioccolato, arrostita, segnata dal sole e dalle intemperie della sua vita. Aveva una risata fragorosa, vera, luminosa, incantata, contagiosa perfino, quando rideva, tutto il corpo si scuoteva come un albero al vento. Con un braccio teneva il suo grosso ventre, come se avesse paura che esplodesse e con la mano si copriva la bocca, un segno di timidezza o pudore, in fondo non era così estroversa. Quando si ride sinceramente ci si denuda dalle convenzioni e dalle maschere che costruiamo a pennello. Me la ricordo ancora oggi. Anche se era bassa, quando rideva acquisiva centimetri, sembrava più alta, nonostante non fosse bella, quella risata le conferiva un non so ché, che le donava quella bellezza mai concessa, senza tempo. Si vestiva sempre allo stesso modo, indossava dei vestiti colorati con grandi fiori variopinti ed un foulard intonato sul capo. Ai piedi indossava degli infradito rosa, un simpatico vezzo. Aveva delle mani piccole, ma pronte ad accarezzare e a diventare grandi, capaci di lanciare gli infradito, sui suoi figli birichini ed impertinenti, con una gran mira. Fumava la pipa o masticava il tabacco, e parlava con un tono di voce alta, non per scortesia, ma per una mezza sordità. Seu José, suo marito era un signore semplice, un po’ su di peso, si vestiva sempre con dei pantaloni color caki e un gilet con tante tasche. Parlava con un tono di voce basso, era discreto, come se desiderasse scusarsi per esserci. Avevano un esercito di figli, naturali ed addottati. Due di loro erano le mie migliori amiche, Nunuca e Adriana preta (nera), una mulatta bellissima.
Mi ricordo che aveva dei capelli così neri, lisci e lucenti che glie li invidiavamo tutte.
Eravamo inseparabili. Ogni sera, ci riunivamo sotto i portici della loro casa. Ci conoscevamo tutti, era un momento particolare, che, solo una volta, fu scosso dall’accadimento di un evento. Si erano uniti alla comitiva una coppia che viveva al di là del mio confine, dove non potevo andare. La casa di donna Maria e di seu José. Ogni tanto, si accodavano, erano una coppia taciturna e trasparente, il marito, più taciturno della moglie. Lei era sorridente, anche se aveva un velo di tristezza che traspariva dai suoi occhi nocciola. Capace di armarsi di un sorriso incerto, insicuro, indeciso, come se nascondesse un segreto. Lui si chiamava Carlos e lei Clarisse. Avevano due figlie della mia stessa età, Anna e Flor. Non le vedevo mai, non venivano mai a giocare con noi. Li consideravamo un po’ strani, ma da noi tutti erano i benvenuti. Carlos era un cafuzo, mezzo indio e mezzo nero, non era proprio una bella fusione. Era un tipo piccoletto, secco, di una magrezza nervosa tanto da essere piegato su se stesso. Sembrava un punto interrogativo per come teneva la testa. Non parlava mai e non ti guardava mai negli occhi, la testa era sempre rivolta al suolo, come se avesse un peso immenso dentro la sua testa, a rimuginare pensieri. Ad un certo punto, iniziò a venire tutti i giorni, si metteva seduto per terra, con la schiena appoggiata al pilastro di sostegno del portico. Ci eravamo preoccupati per l’assenza della moglie e delle ragazze, la dolce Giovanna. Con aria sconsolata, da vittima, ed in lacrime, ci svelò che era sparita, probabilmente con un fantomatico amante. Le ragazze erano dai nonni paterni. Eravamo colpiti, soprattutto noi bambini.
Parecchio tempo dopo, un giorno che tornavo da scuola, vedo una quantità di gente e di volanti della polizia indirizzarsi verso la loro casa. Una casa al di là del mio confine. Una casa senza colore, grigia dal cemento grezzo e malmesso. Inconclusa, a metà. Recintata alla buona con reti metalliche, piegate ed arrugginite. Un cagnolino magro ed affamato, legato ad un fil di ferro, girava intorno alla casa, abbaiando in modo disperato; una cuccia, ciotole vuote. Se avesse potuto parlare, quante cose avrebbe avuto da dire. Ne un fiore ne un gioco per bambini, solo erbacce, erba alta ed incolta, secca e ortiche. Un luogo squallido, arido. Assente, mancante di amore e di speranza. Una casa, non un focolare, una non casa, vuota, piena di vento, di fantasmi.
Sono sempre stata una sensitiva e captavo qualcosa di innaturale, così, i peli delle braccia e i capelli cercavano di sradicarsi dalla mia pelle per scappare chissà dove.
Una sensazione di spavento e di orrore, che anche oggi mi sembra di provare ancora. Non ho mai visto tanta gente e polizia, ambulanze, sembrava di stare fuori dallo stadio, ad una festa di paese.
La gente è morbosa. Mi sono unita a quel fiume, mi sono fatta trasportare come una foglia da quelle formiche impazzite. Quante lacrime, grida, disperazione, incredulità.
Quel che sono riuscita a vedere al di là di quelle transenne sgangherate era il marito, raggomitolato in un angolo, seduto per terra con le ginocchia strette al petto e le braccia incrociate intorno alle gambe, sembrava ancora più minuscolo, una virgola.
Aveva il capo chino, livido in faccia, in attesa del suo destino. Il male ha tante facce, quel giorno i suoi occhi erano così neri che al di là delle sue pupille, poteva esserci solo l’inferno. Alcun pentimento, sentimento, solo il vuoto. La piccola, dolce Giovanna, giaceva all’ombra dei rami frondosi dell’unico albero della loro proprietà, sotto terra. Forse l’ultimo gesto d’amore dopo la follia demoniaca, l’aveva sepolta all’ombra, protetta dal sole inclemente dell’estate carioca.
Sotto lo sguardo silenzioso dell’albero di jabuticaba. L’hanno trovata in posizione fetale. Sembrava che dormisse, sotto un velo di tulle ingiallito, sporco, incrostato dalla terra rossa. Una macchia indelebile, un colpo, un senso di spavento e di disperazione aveva insinuato le sue radici fini, taglienti, appuntite; aveva penetrato, stretto ed imprigionato la bambina che viveva ancora dentro di me.
Col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi, quel senso di orrore aveva iniziato a sfumarsi, a decolorarsi, ad intiepidirsi. Ad un certo punto, senza accorgermene, l’avevo deposto nella stanza della mia memoria.
Ogni giorno edificavo una porta in più, sovrapponendola alla principale con tanto di serrature in più.
Finalmente, come capita, la luce ha preso il sopravvento, così, la bambina ha preso forza ed ha ripreso a gioire per le belle cose della vita, come gli incontri con gli amici, ad andare al laghetto a catturare le ranocchie canterine, a contare i girini e a dare da mangiare alle immense carpe. Ha ripreso a costruire i suoi aquiloni colorati e a farli volare saltellando qua e là a piedi nudi.
Ed eccomi ad affacciarmi dal portone di casa a controllare se fosse già arrivato qualcuno a casa loro, mi preoccupavo di non essere la prima. Da loro, si radunavano molti altri vicini. Era bello stare in compagnia.
Bambini che scorazzavano, rincorrendosi, giocando a nascondino o a ruba bandiera. Chi cantava, chi suonava la chitarra. Si rideva sinceramente o si confessavano in un certo senso. Lì le bugie non esistevano, svanivano come magia. A volte eravamo così numerosi che dovevamo correre a casa a prendere delle sedie. Ci accomodavamo sotto al portico, se si entrava, altrimenti ci spostavamo fuori dal portone per sfuggire dal caldo asfissiante. Così, ci stringevamo sotto la luce gialla tremolante del lampione, sotto lo sguardo penetrante delle stelle. Mi sembravano così vicine che mi illudevo di poterle sfiorare, se solo l’avessi voluto. Mi ricordo con tenerezza quelle serate trascorse ad ascoltare racconti di ogni tipo, da quelli leggendari, ai resoconti della giornata, alla situazione economica generale, politica, raccomandazioni o simili preghiere per augurarsi un avvenire più roseo. Chiedevamo consigli, così iniziavano le discussioni. Mi ha sempre affascinata ascoltare, non parlare, sono sempre stata silenziosa, imparavo in modo silente.
Era bello ascoltare i loro racconti, leggende, sempre con un fondo di verità, metafore e aneddoti. Cose che solo la tradizione, la saggezza popolare poteva tramandare. Non saprei spiegare come mai ci si radunasse solo nella casa di donna Maria e di Seu José.
Ci sono persone che nascono con un compito, il loro era quello di accogliere e confortare, lì ci sentivamo al sicuro.
Restavo ammaliata dai racconti fantastici tipici del nord del Brasile, poiché donna Maria e seu Josè erano originari do Cearà, stato del Brasile situato sulla costa Atlantica nella parte nord orientale. Per mio padre e per loro alcune leggende erano reali. Ci inculcavano queste storie che ci terrorizzavano. Sono sempre stata fortemente attratta dalle figure leggendarie, come quella del lobisomen, ossia il lupo mannaro. Ci dicevano che il cugino di seu José, lo fosse. Non usciva mai di casa, viveva in una dependance della casa di suo fratello, usciva raramente. Quando usciva, non guardava in faccia a nessuno, camminava velocemente come se stesse fuggendo da qualcuno, tutto curvo col suo corpo lungo e scheletrico. Aveva i capelli completamente bianchi e lunghi, si vestiva sempre allo stesso modo, portava dei pantaloni jeans ed una camicia a quadri grandi. Il tutto lo rendeva ancora più goffo. Ogni tanto passavamo davanti alla sua finestra, sempre chiusa, con le tapparelle chiuse e scorgevo i suoi occhi piccoli e neri, che ci colpivano penetrando da dietro il legno come se fossero infuocati. Così come fossero reali gli spiriti che popolavano i terreiros, sale dei macumbeiros, dove si facevano rapire i corpi e questi medium venivano colti da vibrazioni incontrollate. E poi, come il mare, improvvisamente, si calmavano ed iniziavano a parlare con voci strane e modi antichi, non familiari. Parlavano con tono enfatico e si muovevano con una strana grazia.
Questo, se erano spiriti di vecchi saggi, ma capitavano anche spiriti di bambini e lì succedeva l’opposto, all’improvviso, l’ambiente veniva riempito da strilli, risate e canti infantili.
C’era chi gattonava o faceva dispetti. In un certo senso mi divertivano questi incontri. Poi si mangiavano tanti dolci.
Questo succedeva nel giorno dei bambini, per la precisione il 27 settembre, giorno di San Cosmo e San Damiano.
Questi incontri non erano sempre gioiosi, a volte l’atmosfera era pesante e tetra soprattutto quando succedeva che queste persone fossero colpite da qualcosa di inspiegabile.
Si avvicinavano quasi volessero buttarci per terra, e soffiandoci il fumo dalla pipa in faccia, respiravo il tabacco che mi faceva nauseare, anche perché era un mix di tabacco e cachaça, alcool di canna da zucchero, aguardente.
Non ho mai capito perché mia madre ci portava a queste riunioni.
Eravamo piccole e terrorizzate.
Seguivano spesso sogni carichi di immagini scure e minacciose. Vivevo pregando, forse era normale, non lo so. Probabilmente mia madre cercava risposte, tranquillità, aveva un animo perso, inquieto. Cosa potrei dire di lei; era una piccola foglia strappata dal suo albero destinata a piegarsi, ad ingiallirsi e a cadere. Noi eravamo le sue venature. Il nostro destino era segnato ed il vento impietoso ci sbatteva qua e là senza sosta prima della risacca. Prima della mia partenza.
Ogni tanto mi allontanavo dalla comitiva, per raggiungere un piccolo stagno dietro casa loro, e di notte le ranocchie, as pererecas (rane minuscole), uscivano fuori dall’acqua e gracchiavano allegre, mi avvicinavo pian piano per afferrarle.
Erano così carine. Quando tornavo da scuola, e a volte capitava che mia madre non ci fosse, così, a volte mi presentavo a casa di donna Maria, era una seconda casa, c’era sempre un piatto di fagioli, riso e farofa per noi. Era una nonna, quella che si sceglie, quella vera in un certo senso. Ci sono percorsi che si intraprendono per tutta la nostra esistenza. Sembra un eterno ritorno. Si gira e si rigira, finendo al punto di partenza.
Un modo quasi morboso di vivere o sopravvivere. Ero inquieta, rabbiosa, a volte, e con il cuore che batteva in maniera compulsiva, scrivevo, dipingevo e non parlavo, cercavo di trovare in quelle parole o sul disegno un modo di scaricare il mio mondo furioso.
Finivo per confondere la realtà vissuta con la realtà immaginata, un bel guaio.
Questo è il mio modo di fare, ho messo in moto un meccanismo più grande di me.
Così, ho preso la decisione più difficile, più dura che una ragazzina di 11 anni potesse prendere, sradicarmi, strappare con le mie stesse mani le radici e incidere con i denti il cordone ombelicale. Vivevo un sonno infelice dopo aver tanto pianto; capita così, dopo che piangi, ti estranei, ti spegni in modo disorientato, cieco, silente. Ricordo quelle notti trascorse ad ascoltare le voci, le risate, le lamentele. Notti immobili, incantate. Da dove scendere, precipitare sempre più dentro me stessa, come uno scendere dalle scale mobili nella mia interiorità.
Non si può scappare.
Rincorrevo i pesci che uscivano dagli stagni e scivolavano sulla strada per raggiungere non so quale luogo… ero come quel pesce che cammina in un mondo non suo.
Sono nata vicino all’Atlantico, oppressivo, turbolento, inquieto. Non lascia respiro.
Non potrei essere diversa. Con le sue onde lunghe, imprevedibili, dove quando le tempeste infuriano non si trova scampo, o quasi. Se sopravvivi, sarai lacerato da profonde ferite. Ho scelto di partire, di attraversare quell’oceano nel modo più risolutivo e sconosciuto e violento. Ho inserito l’oceano in mezzo tra il mio passato ed il mio futuro, uno spazio imponente, infinito e maestoso, sublime. Dove si agitano flutti colossali.
Ero così piccola, ma capace di impeto e tempeste. Le gestivo, ero diventata il capitano della mia vita, mi illudevo di esserlo. Quel viaggio mi ha portato in uno spazio infinito, che ancora non l’ho attraversato e superarlo sarà un’impresa ardua ed in un certo senso neanche lo desidero. Il bello è proseguire e scoprire ciò che si affaccia alla mia strada, persone, luoghi, sensazioni e la magia che genera. Mi sono immersa in questo flutto denso, impetuoso, perché in fin dei conti è questa la mia casa, dentro me stessa nuoto e annego. Sono i granelli di sabbia dentro la mia clessidra. Il precipitare di ogni granello sul fondo dell’inevitabile, ecco come mi sento. Mi sento ogni singolo granello che precipita rovinosamente. Ogni granello diviene un’isola originata dal precipitare, dallo sperare. Che isola diverrà? Donna Maria, con la sua voce calma, materna ci raccontava più o meno le stesse storie, metafore. Lì per lì non ero in grado di capire. Col tempo, sono state preziose, illuminanti.
Non posso restare troppo a lungo ancorata nel mio mondo passato, potrei rischiare di perdere il respiro.
Essere un astronauta che si allontana dalla terra. Ripenso all’amaca e mi viene restituito quel senso di freschezza e di allegria innocente e vitale. Un giorno, ho preso coraggio ed, in disparte, ho chiesto a donna Maria cosa pensasse della mia decisione di partire, di lasciare casa e andare a vivere dalle zie in Italia. È rimasta per un po’ in silenzio osservandomi, cercava di penetrarmi con quegli occhi profondi e scurissimi. Poi, ha sospirato e mi ha risposto nel modo che le era più naturale, con una storia: “Si dice che anche prima che un fiume si riversi nell'oceano, trema con paura.Guarda indietro tutto il viaggio: le vette, le montagne, la lunga strada tortuosa attraverso i boschi, attraverso i villaggi, e vede davanti a lui un oceano così vasto che entrarvi non è altro che scomparire per sempre. Ma non c'è altro modo. Il fiume non può tornare. Nessuno può tornare indietro.
Il ritorno è impossibile durante l’esistenza.
Puoi continuare. Il fiume deve cogliere la possibilità di entrare nell'oceano. E solo quando entra nell'oceano, la paura scompare, perché solo il fiume saprà che non si tratta di scomparire nell'oceano, ma diventare un oceano. E’ la scomparsa e la rinascita al tempo medesimo.