Ristoranti e trattorie a Roma: si mangia male e nessuna regola. La denuncia
Il presidente degli esercenti Claudio Pica spiega perché nella Capitale solo 15 ristoranti su 100 si salvano
Bar, ristoranti, pizzerie, mini fast food e paninari: c'era una volta l'oste, poi il ristoratore, ora è un business selvaggio. Un far west dell'amatriciana e dell'hamburger dove ci ci rimette è il cliente che non sa quasi mai cosa mangia.
La chiamano ristorazione, era una perla dell'accoglienza romana, invece è una sottospecie di industria piena di regole inutile, di fardelli borbonici e di improvvisazione. Una certezza: “A Roma si mangia bene solo nel 15 per cento dei ristoranti, il resto ha perso ogni legame con la passione”. La denuncia è di Claudio Pica, gelataio per dna, presidente degli esercenti romani con 7 mila iscritti ai quali l'Aper fornisce servizi e soprattutto assistenza e formazione.
Il paradosso vede Pica guidare il fronte di duri, cioè di coloro che vorrebbero un settore strategico del turismo romano recuperare professionalità, dignità, regole e trasparenza. D'altronde la cronaca degli ultimi mesi è piena di denunce che vanno dal “tavolino selvaggio” al riciclaggio di capitali, sino alla igiene nelle cucine.
Ma se la crisi e la disoccupazione hanno piegato le speranze di trovare lavoro, in cucina è diventato vero e proprio sfruttamento della manodopera. E così dove un tempo c'erano cuoche e cuochi d'esperienza, il cappello bianco lo indossano ragazzi del Bangladesh che non parlano una parola d'italiano ma che hanno superato brillantemente i corsi per l'Haccp, le procedure per la conservazione e il trattamento dei cibi. Poi c'è la vergogna della Camera di Commercio che gestisce il Rec, il Registro degli Esercenti del Commercio, che vanta tra gli iscritti giovanissime cinesi che parlano e scrivono solo in mandarino, perfettamente a loro agio tra i test a riposta multipla in italiano.
Per Pica oltre le lenzuolate di Bersani che hanno liberalizzato ogni settore, il padre di tutte le colpe è il Comune di Roma dove tre giunte hanno fatto cadere lo spaghetto cacio e pepe ai minimi livelli storici. Spiega il presidente degli Esercenti: “Tutto nasce dall'incertezza dell'amministrazione e dalla mancanza di regole. Così il professionista del settore sta scomparendo e in Italia e particolarmente a Roma sta prevalendo il mascalzone sull'onesto. Facciamo un esempio: il “tavolino selvaggio” nasce da una norma certa sull'occupazione di suolo pubblico che manca da 3 amministrazioni.
Nascono società di comodo che cambiano dopo tre mesi così le multe non le pagherà ai nessuno. E' evidente che in questo vuoto normativo che se ne avvantaggia è la criminalità. Poi ci sono le colpe nostre che pur di portare a casa un tozzo di pane a fine giornata rischiamo di tutto per sopravvivere ma il Comune fa la sua parte: i bollettini per l'occupazione del suolo dovevano essere trasmessi ai commercianti entro il 30 aprile e invece sono arrivati l'ultimo giorno utile per pagarli con il rischio della mora che chi lo ha fatto in ritardo”.
Il processo al Comune che non c'è o preferisce latitare continua: “A Roma c'è una norma pazzesca che obbliga l'apertura di un locale alla possesso di un contratto con un garagista che dia la disponibilità del parcheggio entro i 300 metri. Secondo voi in una città che ha un centro storico complesso come quello di Roma, il presunto garage disponibile è un punto che garantisce la qualità del servizio?”.
L'ira del re degli esercenti si abbatte anche su Virginia Raggi e il Movimento Cinque Stelle al governo di Roma da un anno: “Passano le norme sugli ambulanti ma gli incontri con la categoria vengono ignorati; passa l'ordinanza anti-alcool e nessuno si accorge che i ragazzi l'hanno elusa spostandosi da una via all'altra e drogando il mercato. Per non parlare dei minimarket che nascono come funghi e che nascondono una regia che li alimenta nelle forniture. Insomma è un caos dove nessuno vuole sporcarsi le mani per riscrivere le regole”.
Presidente Pica, come si esce da questa situazione?
“riqualificandolo riqualificato con un nuovo percorso, partendo dalla scuola alberghiera che sforna disoccupati. Poi c'è il vero problema che un esercizio commerciale come un bar o una pizzeria si è trasformato: prima era un lavoro ora è un bene rifugio. Ci sono effetti della crisi che nessun vuol misurare”.