Roma

Roma: “Cinque anni di Raggi sono anche troppi. I democratici non si dividano”

Andrea Catarci, coordinatore di Liberare Roma, analizza la corsa elettorale di Virginia Raggi

di Andrea Catarci *

Annunci parolai e danni concreti. Lungo le direttrici segnate da tale binomio si sono snodati i (quasi) 5 anni di governo capitolino targato M5s e Virginia Raggi. In dirittura d’arrivo, con la Sindaca ricandidata dalla scorsa estate, si continua sulla stessa falsariga: come se l’insediamento fosse cominciato da pochi giorni, come se non ci fosse un domani a smentire, come se le sorti reali di Roma fossero l’ultima preoccupazione del monocolore grillino al governo della città e della maggior parte dei municipi.

Gli ultimi proclami, in ordine cronologico, riguardano la volontà di acquisire al patrimonio comunale l’edificio dove ha sede Casapound per trasformarlo in case popolari e quella di realizzare la ciclabile da Roma a Ostia, lungo la direttrice di viale Colombo. Aldilà del merito, ineccepibile, la verità è che sono parole unicamente dettate dalla propaganda e dalla campagna elettorale, misure che è impossibile realizzare nel tempo rimasto. Le bike lane, per inciso, sono forse l’unico discreto lavoro fatto dalla giunta Raggi: nell’attitudine alla falsificazione si esagera anche su di esse e si rilancia, fuori tempo massimo, quel collegamento città-mare incluso nei 150 km promessi a inizio 2020 e poi derubricato dalle priorità per scelta. Fumo negli occhi, come le funivie immaginarie o i numerosi “tavoli” innovativi nominati e svaniti, astrazione pura.

I guasti arrecati a Roma, al contrario, continuano a essere terribilmente concreti.

I più recenti sono certificati in tema di rifiuti, su cui il M5s capitolino aveva assicurata una rapida rivoluzione con la “promessa delle promesse”: portare entro il 2021 la raccolta differenziata al 70%, ridurre la produzione annuale di rifiuti di 200.000 tonnellate l’anno, realizzare nuovi impianti di lavorazione dei materiali e di compostaggio – in numero di 13 -, andare verso l’indipendenza nella gestione dell’intero ciclo. Nulla è stato mantenuto: la differenziata sta intorno al 46%, la produzione di immondizia pur nelle oscillazioni annuali aumenta, la dotazione impiantistica è peggiorata, attualmente l’Ama invia a società esterne quasi il 90% dei rifiuti raccolti.

Altrettanto “ufficiale” è il patatrac sul Centro carni.

La struttura viene conferita ad Ama nel 2010 dall’ex giunta Alemanno, per un valore economico di 140 milioni sicuramente sovrastimato all’origine, in quanto determinato sulla base dell’idea di realizzare nel compendio un quartiere con case di lusso. Altrettanto smisurata è però la svalutazione a 24 milioni operata dalla giunta Raggi: essa è conseguenza della scelta di lasciare la struttura all’abbandono rigettando due proposte che negli anni avrebbero potuto avere risvolti importanti sul piano della valorizzazione di spazi e funzioni. La prima, avanzata da comitati e operatori, prevedeva di farne un nuovo mercato all'ingrosso, aggiungendo alla macellazione le attività legate a fiori e pesce. La seconda, dell’ex assessora all’ambiente Pinuccia Montanari e del management di allora, era incentrata sulla realizzazione di un distretto europeo dell’economia circolare improntato sulla logica “rifiuti zero”, una proposta innovativa e anticipatrice che nella congiuntura odierna avrebbe agevolmente potuto ambire ai fondi del Next Generation EU, essendo proprio l’economia circolare una delle priorità del programma. Il duplice risultato è il seguente: nel bilancio 2017 di Ama, che si sta provando ad approvare solo ora su pressione delle procure, i 116 milioni in meno del Centro carni contribuiscono sostanzialmente al rosso di 227 milioni, mentre i 250 milioni necessari per il piano di risanamento - ancora da approvare - che deve evitare il fallimento della medesima azienda pubblica sono destinati a pesare sui complicati conti capitolini. In sintesi si deprezza il Centro carni, si nuoce ad Ama e Roma Capitale e - beffa dopo i disastri - si porta il tutto in procura per provare a giocare d’anticipo su eventuali accertamenti, mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’azienda pubblica.

Si potrebbe continuare con altre vicende.

Chi ha vissuto la città, l’ha analizzata o semplicemente osservata sa bene come sono andate le cose. Più utile è concentrarsi su come impedire che la città resti nelle mani del M5s romano, o passi in quelle altrettanto barbare e distruttive delle destre di Meloni e Salvini. A tal fine le forze sociali e politiche che compongono lo schieramento democratico sono chiamate ad assumersi per intero le proprie responsabilità.

Il recente sondaggio realizzato da Izi-Repubblica accredita Virginia Raggi del 26,2% dei consensi, Guido Bertolaso per il centro destra del 19,7%, Roberto Gualtieri per il polo democratico del 17,9%, Carlo Calenda di Azione del 15,3% e Vittorio Sgarbi del 5,9%. Si tratta solo di una rilevazione, mancano più di 6 mesi al voto, con la campagna elettorale le cose cambierebbero, alcuni protagonisti della contesa non hanno neanche ufficializzato la loro partecipazione: tutto vero. Eppure un segnale è chiaro: la divaricazione tra la componente moderata e liberale rappresentata da Carlo Calenda e il resto del mondo democratico rischia di estromettere entrambe le parti dal ballottaggio. La ricetta semplice per evitare uno scenario del genere c’è: confronti programmatici approfonditi e capillari, territorio per territorio, insieme alle primarie sulle leadership, per il sindaco e le presidenze dei municipi. Il tempo c’è ma si faccia presto, senza il coraggio di scegliere il confronto pubblico come strumento di verifica e senza affidarsi al protagonismo diffuso si determina la frantumazione e la sconfitta.

* Andrea Catarci, coordinatore del Comitato scientifico di Liberare Roma