Roma
Roma, Francesco Giro: “Veltroni ha fallito, rifacciamo il piano regolatore”
“La grande Capitale decentrata e policentrica non si è mai vista: il viaggio con affaritaliani.it per ripartire dalla cultura dei luoghi”
di Francesco Giro *
Roma è innanzitutto la sua urbanistica. Per comprendere le difficoltà della Capitale e tentare di invertirne il declino bisogna conoscere innanzitutto l’evoluzione del suo assetto urbanistico. Nel Secondo dopoguerra a Roma il Piano regolatore ancora in vigore era quello del 1931. Nel frattempo la città si era estesa in più direzioni, in gergo “a macchia d’olio”, così come prevedeva lo stesso Prg.
La sua nuova estensione, oltre 150mila ettari, era decuplicata rispetto a quella presa come riferimento nel piano del 1931. Si rende quindi necessario un nuovo sistema urbanistico di previsione. Nel 1951 parte così una vicenda lunga undici anni che ci condurrà nel 1962 al primo Piano regolatore della Capitale del dopoguerra. Il nucleo forte del Piano è l’organizzazione della città su assi direzionali. Il progetto preliminare elaborato nel 1954 dal CET, una sigla ormai celebre e ricorrente nei testi di urbanistica capitolina che sta a indicare il Comitato di elaborazione tecnica, individua nel settore orientale della città - fra la Salaria e l’Eur - un grande asse attrezzato che collega fra loro i centri direzionali di Pietralata, Centocelle, Colombo, Eur.
Nel 1958 il progetto viene abbandonato dal Consiglio comunale e al suo posto viene compilato un nuovo piano che ridimensiona l’asse attrezzato e lo ruota scivolando giù, da est a sud ovest, dal quadrante Salaria-Pietralata a quello compreso fra la Colombo e l’Eur. C’è dunque un netto cambio di prospettiva e viene anche favorito uno sviluppo isotropo della città, a cerchi concentrici. Nel 1959 il piano viene adottato, ma già un anno dopo viene modificato in seguito ai rilievi del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici che lo riavvicinano alla logica del primo progetto, quello del 1953 del CET con l’asse direzionale orientale. E in tre anni, fra il 1962 e il 1965, il nuovo piano regolatore di Roma viene definitivamente approvato. Ma la sua natura è ormai ambivalente, oscillando fra una concezione moderna che intendeva appunto “orientare” per assi lo sviluppo urbanistico e una concezione più tradizionale, ereditata dal vecchio piano del 1931, di una crescita residenziale per zone e per comprensori, soprattutto a sud e verso il mare.
E infatti lo sviluppo delle nuove costruzioni sarà del 40% a sud, del 30% a est e del 15% rispettivamente a nord e a ovest, con un asse industriale fra la Tiburtina e la Prenestina, come prevedeva il vecchio CET e tuttavia una presenza industriale anche sulla Pontina. Negli anni successivi se - come più volte denunciato dall’architetto Piccinato (uno dei padri del Prg 1962-1965) - cala il silenzio sull’asse attrezzato viario, al contrario si verifica un forte impulso sul fronte della costruzione di nuove abitazioni con i Piani di edilizia economica popolare (i Peep). Il primo Peep, adottato nel 1964 e approvato 7 anni dopo nel 1971, con una variante di recepimento, è dimensionato su una città che avrebbe dovuto raggiungere addirittura i 5 milioni di abitanti e prevede la realizzazione di oltre 700mila nuove stanze che si aggiungono alle 2,3 milioni di iniziativa privata. Nel 1987 quando verrà definitivamente approvato il secondo Peep, le stanze realizzate dal primo Peep scaduto nel 1984 erano 274mila, 38% in meno di quelle previste. La popolazione cittadina era cresciuta molto al di sotto dei 5 milioni fissati negli anni ‘70 e ora il secondo Peep si limita all’obiettivo di 97mila stanze, fino ad un massimale di 120mila, numeri molto distanti dal primo Peep dell’esplosione edilizia. Cambia anche la tipologia delle costruzioni, con edifici più bassi, di 4-5 piani e non di 8-11 piani, dislocati non in linea ma a tessuto, per integrarsi con il costruito esistente e con i quartieri. La città continua comunque a svilupparsi per zone con una netta prevalenza est-sud rispetto alla direzione nord-ovest. Tutto ciò accade nella prima fase degli anni '50-60 attraverso un’edilizia intensiva ma ancora artigianale dei piani particolareggiati, alla quale negli anni ‘70-80 si sostituisce un’edilizia più evoluta sotto il profilo industriale dei piani del 1967.
È comunque evidente che il Prg del 1965, pur avendo in qualche modo fronteggiato la richiesta di nuovi alloggi, ha fallito sulla realizzazione di un nuovo orientamento del complessivo sistema urbanistico sull’asse orientale. Un fallimento che diventa tangibile nel 1990 quando viene approvata la legge 396/90 per Roma Capitale che istituisce un fondo statale per finanziare finalmente un “programma di interventi” ad hoc per la Capitale. Del cosiddetto SDO, Sistema Direzionale Orientale, anche in rapporto alle risorse del nuovo Fondo, restò ben poco. Il progetto subì un progressivo ridimensionamento in termini di spazi edificabili e di infrastrutture previste fino ad essere completamente superato. Piuttosto che dare un diverso orizzonte alla città in quegli stessi anni sembra prevalere anche l’esigenza di regolarizzare molti nuclei abusivi sorti nell’immediato dopoguerra. Nascono così, con un’ennesima variante, le zone ‘O’ per il recupero urbanistico dei nuclei abusivi con opere di urbanizzazione primaria (strade, acqua, fogne, luce, gas, verde attrezzato, illuminazione pubblica, reti telefoniche) e secondarie (asili, materne, scuole, mercati, impianti sportivi, centri sociali e culturali, parchi).
Nel 1997 si arriva al cosiddetto “Piano delle certezze”, una variante urbanistica al Prg del 1965 voluta dal sindaco Rutelli che indica le linee prospettiche del futuro Prg di Veltroni del 2008. Viene sancito il principio della sostenibilità ambientale; identificata l’area verde dei parchi e dell’Agro romano; prevista la riqualificazione del costruito; promossa un’organizzazione policentrica del territorio e del sistema di mobilità su ferro.
Con il nuovo Prg di Veltroni adottato nel 2006, poi controdedotto da circa 7000 osservazioni e definitivamente approvato nel 2008, si è tentato di dare una visione alla Capitale puntando sul decentramento, sul policentrismo e la tutela del patrimonio culturale, valorizzazione delle periferie e cura del ferro. Ma i risultati sono stati fin qui assai deludenti. Del resto al momento della sua approvazione il nuovo Piano sembrava già vecchio, avendo esaurito sul nascere le proprie previsioni urbanistiche e limitandosi a soddisfare alcune aspettative maturate con il precedente piano del 1965 ma congelate con la variante delle certezze del 1997. Era l’urbanistica del “pianificar facendo” con lo strumento controverso delle compensazioni e degli ambiti di riserva, aree definite di scarso valore ambientale che l’Amministrazione può appunto acquisire a compensazione di diritti edificatori acquisiti dal piano delle certezze. Ma il vero punto dolente del Prg sono le famose 18 centralità metropolitane, presentate a suo tempo come il fiore all’occhiello di una città nuova. Il modello che ci si prefiggeva era quello di una grande Capitale decentrata e policentrica con poli accessibili sotto il profilo della mobilità su gomma e su ferro, che avrebbero accolto uffici, università e luoghi per il tempo libero.
Di tutto questo non si è visto molto ma soprattutto alla nuova distribuzione urbanistica di luoghi e di funzioni non è corrisposta una devoluzione di poteri e di risorse dal Comune di Roma ai municipi, in cui le nuove centralità insistevano. Permane una dissimmetria fra policentrismo urbanistico e decentramento amministrativo e istituzionale. I municipi di Roma, con 150mila fino a oltre 300mila abitanti, sono equiparabili a grandi comuni d’Italia come Bari e Firenze. Per questo dovranno ricevere strumenti amministrativi e finanziari adeguati.
Con il viaggio di Affaritaliani.it nel cuore della Capitale, che è fatta di centro e di periferie, cercherò di individuare un modello urbanistico che inevitabilmente si tradurrà in uno stile di vita qualitativamente migliore. Il progetto è misurare la vivibilità dei quartieri sia centrali, semicentrali o periferici, privilegiando la qualità architettonica delle abitazioni, la presenza dei servizi alla persona, di scuole, presidi sanitari, culturali, sportivi e del tempo libero, luoghi per l’accoglienza delle persone anziane e ludoteche per i bambini, la mobilità e l’accessibilità. Insomma Roma potrà rialzarsi se partiremo dalla cura dei luoghi, che sono molteplici in una città fra le più estese d’Europa, ma gestibili attraverso l’impegno di un’amministrazione che sappia coinvolgere le molteplici realtà del territorio pubbliche e private.
* Francesco Giro, Senatore di Forza Italia e Segretario del Senato della Repubblica